Cosa vi è di più naturale, nell’immaginazione comune, di un gregge di pecore che con i loro montoni tranquillamente pascolano sulle pendici di una verde collina? Questo scenario è però il risultato di un lungo e complicato processo di costruzione di un nuovo animale che l’uomo ha ricavato, in millenni di paziente e duro lavoro, da animali selvatici di cui oggi non rimangono che scarsi relitti da proteggere e salvare. L’invenzione del montone o, se volete, della pecora, ha avuto una grandissima importanza nello sviluppo delle società umane. Questo spiega le dimensioni antropologiche di tutto quanto ruota attorno alla pastorizia e come ancor oggi siamo tanto legati ai prodotti di questo animale, e in particolare a quelli da abbigliamento, come la lana e le pelli. Un motivo per cercare, assieme alle radici della pastorizia, alcune radici del nostro inconscio che ci porta fortemente ad apprezzare indumenti di calda lana o folte e morbide pellicce di montone od agnello in tutte le loro varietà, iniziando da alcune note su uno dei più antichi libri della nostra cultura, la Bibbia.

Quante pecore sull’arca di Noè?

Quante pecore Noè porta sull’arca? Ovviamente due, un maschio e una femmina, è la risposta più comune se non ovvia, avvalorata anche da un’infinità di quadri che mostrano gli animali in coppia che si avvicinano o salgono sull’arca, dimenticando quanto è scritto nella Bibbia (Genesi 7, 2) che afferma: “D’ogni animale mondo prendine con te sette paia, il maschio e la femmina; degli animali che non sono mondi, il maschio e la femmina.” Le pecore, animali mondi perché ruminanti con unghia bipartita, che Noè carica sull’arca sono quattordici, come quattordici sono le capre, le antilopi e altri animali appartenenti a questa categoria che i pittori hanno creduto opportuno ridurre a due come gli animali immondi, tra cui si trovano elefanti, cavalli, giraffe, cani, gatti e via dicendo. Senza entrare nella complessa, molto discussa e ancora irrisolta questione riguardante i motivi profondi della distinzione degli animali di cui l’ebreo osservante può o non può cibarsi, è utile osservare che Noè non salva una coppia di pecore ma un piccolo gregge, dimostrando l’importanza che questo animale ha già nel passato, quando nella Bibbia sono raccolte storie e narrazioni remote come quelle di un grande diluvio.

Buono da mangiare e buono da vestire

La nostra specie non solo rende domestica la pecora ma la cambia, e quindi la inventa. L’invenzione della pecora avviene attraverso un’intensa opera di selezione, sviluppatasi in diverse parti del mondo e nella quale altre invenzioni tecnologiche hanno un’importanza determinante. A volte è la tecnologia che sembra indirizzare o spingere la selezione di questi animali. Ad esempio, la scoperta della tintura delle fibre vegetali induce a selezionare pecore dal vello bianco. Altre volte, invece, strumenti specifici sono inventati e soprattutto sviluppati in conseguenza dei risultati ottenuti sugli animali, come pare avvenga per gli strumenti per fabbricare il feltro o per filare e tessere la lana.

L’esistenza di queste interrelazioni, non sempre definite per quel che avviene prima e ciò che invece segue, rende difficile tracciare uno schema semplice ed unitario. Dobbiamo quindi accontentarci di un quadro molto complesso con parti ancora oscure, ma non per questo meno affascinante. Un’utile linea-guida interpretativa, con tutti i limiti d’ogni generalizzazione, consiste nell’inquadrare l’invenzione della pecora in una struttura che ingloba le quattro utilizzazioni di tale specie da parte dell’uomo.

Nella domesticazione della pecora vediamo strettamente coinvolti da una parte due apprezzati alimenti (carne e latte) e dall’altra due ricercati tipi d’abbigliamento (pelli e tessuti di lana): un caso molto evidente nel quale il Buono da Mangiare si collega strettamente con il Buono da Vestire. Inoltre, due produzioni sono sviluppate per essere fornite dall’animale in vita (latte e lana) e altre due invece dopo morte (carne e pelliccia).

Un intreccio di relazioni che in ogni società ha i propri equilibri e che si dimostra molto importante per comprendere il diverso posto assunto dalla pastorizia nelle culture umane, tra le quali anche la nostra. Una gamma di diversi rapporti che giustifica anche il gran numero di pecore ancora oggi esistenti sulla faccia della terra.

Sotto a tutte le molteplici relazioni tra le società umane e l’allevamento della pecora vi è una componente comune che è il vero e proprio segreto del successo di quest’allevamento. L’alimentazione delle pecore, infatti, non è competitiva con quell’umana, si svolge spesso in territori che per vari motivi, pur variabili e mutabili, non sono altrimenti utilizzabili e non sfruttabili (almeno in particolari condizioni) con l’agricoltura ed infine, entro corretti limiti numerici, è sinergica con lo sviluppo agro-zootecnico e la difesa del territorio.

Prima fu la lana

Il successo dell’allevamento ovino è principalmente da attribuire alle quattro produzioni utilizzate dall’uomo (lana, latte, carne e pelliccia). Non bisogna tuttavia dimenticare l’importanza che, almeno all’inizio della domesticazione, hanno avuto anche gli strumenti ed utensili ricavati dalle sue ossa e corna; la stessa parola ceramica deriva dalle loro corna, e soprattutto da quelle del montone. La pelle e la carne (assieme ad ossa e corna) sono oggetto d’attenzione da parte degli uomini cacciatori. Il latte e la lana sono stati invece scoperti, sviluppati e, almeno per quanto riguarda la lana, inventati dalla donna, coltivatrice e allevatrice.

Ancora oggi le pecore selvatiche, come i progenitori degli ovini domestici, fanno pochissimo latte e per un breve periodo di tempo, e non hanno il vello folto, lanoso e dalla crescita continua che caratterizza le specie domestiche e che è fonte di gran parte della loro importanza economica. Nonostante l’inizio della domesticazione degli ovini e caprini risalga a più di undicimila anni fa, dopo tremila anni d’allevamento pastorale le pecore sono ancora rivestite da un vello bruno, costituito da uno strato superficiale di peli ispidi che subiscono una muta annuale (la giarra) e da uno strato interno, lanuginoso e formato da fibre sottili, anch’esso mutato con periodicità annuale. Un simile animale non può sostenere tutta la tecnologia che si è poi sviluppata attorno alla pecora domestica – tosatura, tintura, filatura e tessitura della lana – in modo più produttivo di quello che avrebbero potuto fare le pecore selvatiche dal vello caduco sopravvissute in varie parti del mondo. Allo stesso modo, dopo l’uccisione dell’animale, la pelle di pecora (come quella della capra) che non ha subito alcuna selezione nel suo mantello, ha ben scarso potere coibente ed è quindi di scarso valore.

L’evoluzione del vello delle pecore è stata oggetto dell’attenzione di numerosi studiosi, ed in particolare di Michael L. Ryder dell’ARC Animal Breeding Research Organisation, Edinburgh, Scotland (U.K.). Questi studi sono importanti perché pecore e capre sono i primi animali produttori d’alimenti, e in seguito d’indumenti, addomesticati dopo il cane che fornisce quasi esclusivamente servizi nella caccia e custodia. L’importanza della vera e propria costruzione del vello delle pecore è documentata anche da leggende (il Vello d’Oro di Giasone e la spedizione degli Argonauti) e da rappresentazioni artistiche. Figurine di pecore e montoni con bioccoli di lana del vello risalgono a settemila anni fa, mentre più recenti sono le rappresentazioni di diverse forme dei bioccoli (appuntiti ecc.).

Nella costruzione del vello indubbiamente partecipa la donna, strettamente interessata alla sua utilizzazione e che è a contatto con gli animali man mano che s’incomincia ad utilizzarne il latte. Ovviamente, quando il processo è iniziato non si sapeva dove si sarebbe arrivati. Tutto sembra incominciare con la raccolta dei lunghi filamenti che cadono dal vello dei montoni e delle pecore durante la muta ed assomigliano ad un filato grossolano. Con questi filamenti inizia la produzione di feltri e di rudimentali tessuti, sfruttando anche le tecniche che le donne hanno sviluppato per le fibre vegetali.

Nel corso di migliaia d’anni e con un’attenta e continua opera di selezione di cui è ancora testimone, nella Bibbia, l’episodio della selezione del mantello nelle capre e pecore operato da Giacobbe nei greggi di Labano – Genesi, 30, 26-45), l’ispido pelo di giarra del mantello superficiale originario diviene progressivamente più fine. Contemporaneamente, la fine lanugine delle pecore selvatiche diviene più grossolana e, attorno al 3000 a. C. nel Medio Oriente e al 1500 a. C. in Europa, si formano due tipi di vello primitivo, rispettivamente detti peloso medio e medio uniforme. Questo pelame ha ancora una crescita discontinua e può essere raccolto strappandolo o con una pettinatura durante il periodo della muta. Da queste lane primitive si possono ricavare diversi tipi di filato.

Attorno al 1000 a. C. nelle pecore compaiono nuovi tipi di mantelli e soprattutto le lane bianche e la crescita continua del vello, strettamente connessi a due importanti progressi tecnologici: l’arrivo della tintura e l’invenzione delle cesoie per la tosatura. In questo momento nasce la pecora da lana come la intendiamo oggi ed inizia il processo selettivo d’affinamento e specializzazione delle caratteristiche del vello che porta all’attuale produzione della lana fine (fonte principale per gli indumenti), della lana media (adatta per tessuti pesanti e tappeti), e della lana corta (per maglieria e lavoro ai ferri).

Se la pecora in vita rappresenta una riserva di carne anche attraverso la produzione d’agnelli e fornisce latte che da poco è divenuto sempre più abbondante, uno dei più importanti motivi di successo della pastorizia è indubbiamente lo sviluppo da parte dell’uomo, o meglio della donna, della lana. Una produzione, quest’ultima, che influisce anche sulle caratteristiche della pelle e trasforma un ispido mantello di scarso valore in una gradevolissima pelliccia.

Pelliccia d’agnello e di montone

Nel linguaggio comune si dice lana di pecora e pelliccia di montone, nonostante queste possano essere ricavate da entrambi gli animali. La distinzione deriva forse dal fatto che esiste una competizione alimentare tra la produzione di lana e quella del latte, e da alcune particolarità ormonali degli animali.

La produzione di lana e di latte richiede elevate quantità di proteine: per questo in natura, dove sono più frequenti le carestie delle abbondanze, la seconda parte della gravidanza e l’allattamento non coincidono con la muta e la crescita del nuovo pelo. Con la crescita continua della lana nella femmina vi è infatti una competizione alimentare con la seconda parte della gravidanza, e soprattutto con l’allattamento. Questa condizione è oggi superata con adatte alimentazioni e precisi calendari di riproduzione e tosatura delle pecore, che quindi possono fornire ottima lana come altrettanto apprezzate pellicce. Le condizioni ormonali tipiche della femmina influiscono anche sulle caratteristiche del loro mantello che tende ad essere più fine e sottile, mentre nel maschio, sempre per ragioni ormonali, è più forte e compatto. Caratteri questi ultimi presenti anche nella pelliccia. L’invenzione della lana si collega anche all’invenzione della pelliccia di montone, con diverse sfumature che riguardano anche le prime fasi della vita.

Pellicce d’agnello. Le basi genetiche della produzione della lana influiscono in modo determinante sulla produzione del mantello fin dallo stato fetale. Questo è particolarmente evidente nell’ultimo terzo della gravidanza e i pastori se ne accorgevano soprattutto quando i loro greggi erano colpiti da infezioni che provocano ondate d’aborti e di mortinatalità, come la brucellosi. Le pecore colpite da questa malattia abortiscono non più di una volta, dopo di che sono più o meno immuni. Nei greggi colpiti vi è quindi una certa percentuale d’agnellini abortiti o nati morti che una volta erano anche mangiati e che fornivano una pelliccia molto pregiata, soprattutto nella razza Karakul con le pellicce Breitschwanz, Astrakan o Persiano. In modo analogo, nel passato, ed in buona parte ancora oggi, le pecore da latte non possono dare tanto latte da mantenere il proprio agnello e soddisfare le richieste degli allevatori. Quindi o agnello (carne) o latte, tanto che vi è una prescrizione biblica che vieta il contemporaneo uso alimentare della carne e del latte e suoi derivati. Nelle culture che sviluppano la produzione di latte della pecora e l’uso alimentare degli agnelli non destinati alla riproduzione vi è un’ampia disponibilità di pellicce d’agnello con positive caratteristiche derivate dalla selezione operata per la produzione di lana.

Pellicce d’agnellone. Quanto ora indicato si ripropone, ma con numeri superiori, per gli agnelloni da carne (agnello pesante), tipici delle culture che non utilizzano il latte di pecora e lo impiegano soltanto nell’alimentazione dell’agnello.

Pellicce di montone. Non indifferente è la quantità di pelli che deriva dalla macellazione, a fine carriera produttiva, delle pecore e dei montoni da carne, latte e lana. Si tratta di pellicce che hanno caratteristiche diverse in rapporto a razza, sesso, momento di macellazione e stato di salute degli animali, e che pertanto hanno destinazioni ed impieghi diversi nell’industria della pellicceria. La grande popolazione d’ovini presenti nel mondo, tra i quali sono da inserire i diversi milioni di capi italiani, produce inevitabilmente un elevato quantitativo di pelli di buon pregio che sarebbe assurdo perdere o tanto meno distruggere.

Pelliccia pastorale, dieta mediterranea ed ecologia

L’invenzione della lana è alla base dell’innegabile successo della pelliccia di montone, con tutte le sue varietà di qualità e derivazioni che permettono una folla d’applicazioni. Si tratta di pellicce che non derivano da un allevamento diretto a tale fine ma che rappresentano un prodotto complementare, ma non per questo secondario o di minor pregio della lana, del latte e della carne ovina. Si comprende facilmente perché le pellicce di montone sono accettate da tutte le culture pastorali, comprese quelle più spiccatamente lattofile e che basano la loro alimentazione più sul latte che sulla carne. Anzi, sono proprio le culture presenti in molte aree mediterranee, in particolare quelle italiche, che per sfruttare il latte di pecora hanno sviluppato i riti dell’agnello primaverile.

Un sottile ma tenace filo lega quindi le pellicce di montone in tutte le loro varietà alla Dieta Mediterranea di prevalente impostazione latteo-vegetariana, pur accogliendo consistenti quantità di carni. Lo stesso filo ancor oggi collega l’allevamento ovino di tipo estensivo e pascolativo, non inquinante e rispettoso, se non protettivo, della natura e che in Italia persiste in tutte le aree marginali, ad iniziare da quelle appenniniche, con l’inevitabile produzione di pellicce di montone. Solo a queste dovrebbe quindi essere riservato, anche come denominazione d’origine, un marchio di pellicce ecologiche.