Quando si parla di shelf-life si fa riferimento ad un concetto che assume tratti importanti dal punto di vista della sicurezza alimentare e della qualità degli alimenti. La shelf-life di un prodotto alimentare rappresenta il periodo di conservazione in cui l’azienda garantisce il mantenimento di tutte le caratteristiche di sicurezza, salubrità e qualità sensoriale del prodotto alle condizioni di conservazione indicate sulla confezione, che dovranno essere correttamente fornite al consumatore. Di fatto la vita commerciale del prodotto e la sua definizione e validazione nell’ambito dell’autocontrollo ricadono tra le responsabilità dell’operatore del settore alimentare. Dal punto di vista normativo, tutto questo trova una base nel divieto esplicito di vendita, detenzione e somministrazione di alimenti e bevande in cattivo stato di conservazione, con cariche microbiche superiori ai limiti di legge, in stato di alterazione o comunque nocive previsto dall’art. 5 della Legge n. 283/1962, l’obbligo di indicazione tramite etichettatura della data di scadenza (per alimenti deperibili dal punto di vista microbiologico, che potrebbero costituire, dopo un breve periodo, un pericolo immediato per la salute umana) o del termine minimo di conservazione (periodo in cui l’alimento conserva le sue caratteristiche se mantenuto in condizioni adeguate) previsto dal Reg. (UE) n. 1169/2011, ed infine nel divieto di immissione sul mercato di alimenti a rischio, ovvero dannosi per la salute e/o inadatti al consumo umano, previsto dall’art. 14 del Reg. (CE) n. 178/2002.
La definizione della vita commerciale, quindi della shelf-life, di un alimento non è una cosa semplice perché richiede competenze varie e specifiche. È quindi importante rivolgersi a professionisti qualificati, ma il produttore deve avere un ruolo attivo nello studio di shelf-life poiché è l’unica fonte certa e completa di informazioni relative al prodotto. Quindi, la determinazione della vita commerciale dell’alimento non può mai essere delegata in toto ai laboratori che hanno competenze a riguardo, così come non può prescindere da una collaborazione stretta e sinergica tra professionista coinvolto (ad esempio, un tecnologo alimentare), laboratorio che conduce le prove analitiche ed il produttore.
Per quanto il team di studio della shelf-life sia competente, va tuttavia ricordato che è responsabilità del produttore partire da condizioni di processo tali da garantire un’elevata e costante qualità dell’alimento. Diventa perciò cruciale, ancor prima della definizione della shelf-life, attenersi ad un rigoroso sistema di autocontrollo interno: rigore non è rigidità, quindi ciò che conta ai fini della sicurezza alimentare e della qualità è avere un sistema di gestione efficiente, in grado di rispondere efficacemente alle norme della food law ed in grado di essere flessibile ai cambiamenti all’interno dell’impianto, senza venir meno ai requisiti di sicurezza. Non si può pensare di avere una shelf-life adeguatamente estesa in funzione della natura del prodotto se si viene meno alla grande ed importante responsabilità di autocontrollo della quale, per legge [Reg. (CE) n. 178/2002 e Reg. (CE) n. 852/2004], lo stesso operatore del settore alimentare è esso stesso responsabile.
Nell’ambito dello studio di shelf-life, una fase cruciale, alla quale va prestata estrema attenzione, è quella dedicata allo studio preliminare. Essa consiste nella valutazione di tutti gli aspetti e le caratteristiche dell’alimento che possono avere un’influenza sulla conservazione: si tratta quindi di informazioni che consentono di avere un quadro su quali sono i pericoli e fenomeni di degradazione che potenzialmente possono instaurarsi nell’alimento, a quali condizioni ambientali si verificano e con quale velocità si presentano. A supporto di tali informazioni ci sono le ricerche in letteratura oppure le eventuali prove analitiche raccolte in fase produttiva. Tutto questo concorre alla definizione di una prima ipotesi di conservabilità dell’alimento nonché alla definizione delle prove da condurre per confermare oppure rigettare quest’ipotesi, ma non solo: avere un’idea precisa e chiara di quello che è necessario fare permette di risparmiare tempo e denaro.
Per verificare la durabilità degli alimenti nel tempo, le prove più frequentemente impiegate sono le prove di conservazione: l’obiettivo è monitorare il processo di degradazione attraverso la verifica di indicatori chimici, microbiologici e sensoriali su campioni prelevati e conservati appositamente per tali test. Le prove vengono solitamente effettuate in tempi diversi: la prima è condotta al “tempo zero”, ovvero subito dopo la produzione, mentre le successive sono condotte a tempi prestabiliti sui campioni conservati a condizioni definite e controllate (in genere, si tratta di 3 tempi diversi della shelf-life, inizio, metà e fine); per garantirsi un maggior margine di sicurezza, si può prevedere una quinta prova eseguita oltre la scadenza del prodotto, nonché si può includere anche un campione prelevato dai punti di vendita del prodotto. Per rendere lo studio ancora più realistico, andrebbero considerate le prove in “abuso termico”, che riflettono essenzialmente la gestione della catena del freddo da parte dei diversi attori coinvolti: produttore, distributore e consumatore finale. Infatti nel percorso dal magazzino di stoccaggio, attraverso la logistica, verso i frigoriferi del punto vendita prima e di casa poi, generalmente il prodotto potrebbe subire sbalzi termici, che quindi devono essere considerati nello studio di shelf-life, simulando le peggiori condizioni di conservazione. Ad esempio, per un prodotto refrigerato come lo yogurt drink, le cui condizioni ottimali di conservazione sono a temperatura di 4°C, si può prevedere di valutare un periodo della shelf-life a temperatura di 6-8°C, al fine di simulare la fase di conservazione realistica durante la vita commerciale in frigoriferi non correttamente impostati per la conservazione refrigerata. Per avere riscontri affidabili, è buona norma prevedere il prelievo di campioni sia all’interno dello stesso lotto, sia in lotti diversi: questo ci darà un’idea della variabilità intra- ed inter-lotto. Chiaramente, per far fronte ad una progettazione sostenibile dello studio di shelf-life, dobbiamo considerare che maggiore è il numero di campioni e maggiore sarà la spesa da sostenere: soprattutto per le piccole realtà, l’ideale è, oltre ad un efficace studio preliminare, lavorare analiticamente sui parametri realmente critici (ad esempio, per lo yogurt critico è il mantenimento delle quantità di fermenti lattici in modo che sia rispettato il limite minimo di legge che vediamo più avanti).
Dedichiamo questo articolo alla shelf-life dello yogurt da bere, introdotto da Mirko Galliani nel suo articolo “Perché lo Yogurt Drink ha successo?”. Yogurt a coagulo rotto (o cremoso) e yogurt drink sono molto simili dal punto di vista di processo tecnologico, ma differiscono per il contenuto in residuo magro, che nello yogurt da bere è inferiore rispetto a quello dello yogurt cremoso. Inoltre, lo yogurt drink disponibile sul mercato varia ampiamente in viscosità e in gusto.
Quanto dura la shelf-life dello yogurt da bere, in generale? La durata coincide con il tempo in cui il prodotto è sicuro al consumo, le proprietà funzionali (nello specifico, legate ai fermenti lattici che devono essere vivi e vitali nel prodotto finito e mantenersi in quantità non inferiori a 106 UFC/g fino alla data di scadenza): “in soldoni”, circa 30 giorni. Non potendo pastorizzare il prodotto (perderemmo altrimenti la possibilità di chiamarlo “yogurt”, almeno in Italia) e avendo perciò dei limiti tecnologici sui quali intervenire per garantire la shelf-life, per cui dovremmo definire e validare la giusta procedura nell’ambito dell’autocontrollo, su quali punti possiamo lavorare per far arrivare uno yogurt drink “con i muscoli” sul mercato? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo vedere quali sono gli elementi critici per la conservabilità del prodotto.
Il deterioramento di cui sono responsabili i microrganismi nello yogurt in generale è legato sì alla presenza di batteri, lieviti e muffe da potenziale contaminazione durante la trasformazione post trattamento termico, ma anche dai tanto auspicati fermenti lattici, che necessariamente dovremmo costringere a uno “stato di non attività” (dovranno mantenersi vivi e vitali fino alla data di scadenza) per evitare di avere un prodotto con inaccettabile sapore (legato ad acidità spinta ed altri sapori dovuti a molecole organiche prodotte durante la fermentazione) e con promessa stabilità dovute a ripresa della fermentazione. La soluzione sarebbe raffreddare il prima possibile il prodotto una volta finita la fermentazione ed aggiunti gli altri ingredienti caratterizzanti, nonché impegnarsi a mantenere e monitorare la catena del freddo dopo il confezionamento: ricordiamoci che si tratta di un prodotto deperibile! Per quanto riguarda lieviti e muffe, il problema principale è legato alla contaminazione dell’aria negli ambienti di lavorazione, che devono essere il più possibile isolati dall’ambiente esterno, e delle superfici di contatto con lo yogurt. In tal senso, diventa fondamentale avere un sistema di filtrazione degli ambienti di lavorazione efficiente, da sottoporre a manutenzione e pulizia ordinaria. Ci sono poi tutte le procedure di pulizia da rispettare affinché le superfici di contatto non diventino esse stesse fonte di contaminazione. Laddove è sostenibile dal punto di vista economico (ma anche produttivo), l’ideale sarebbe inserire una cosiddetta ultraclean filler, ovvero una macchina riempitrice che consente di avere un ambiente asettico isolato in cui procedere al confezionamento grazie alla filtrazione HEPA ( High Efficiency Particulate Air filter) ed in cui siano disponibili sistemi di disinfezione dei materiali di imballaggio. Inoltre, i semipreparati di frutta, se non correttamente processati dai vostri fornitori e, soprattutto, se non confezionati in contenitori sterili, possono essere a loro volta fonte di contaminazione (devono perciò essere sterili dal punto di vista commerciale), così come possono esserlo anche i materiali di confezionamento: anche per i più piccoli produttori, diventa quindi cruciale scegliere dei fornitori di materie prime e di packaging qualificati, che siano in grado quindi di fornire prodotti e materiali idonei a garantire la sicurezza alimentare del nostro prodotto finito. Se i gli ingredienti di frutta invece sono da voi preparati, tenete bene a mente che avere un ingrediente non correttamente processato può comportare un rischio microbiologico anche a carico del vostro yogurt drink. Non dimentichiamoci poi del rischio spore, poiché si tratta di forme microbiche specializzate per la sopravvivenza anche in condizioni ambientali avverse in grado di sopravvivere ai trattamenti termici. Va detto che le basse temperature di refrigerazione e l’elevata acidità dello yogurt sono due parametri importanti per “tenere a bada” le spore, ma la soluzione migliore sarà evitare in via preventiva le contaminazioni ambientali del nostro latte soprattutto in stalla. Da ultimo, ma sicuramente non meno importante, è il rispetto dei criteri microbiologici di sicurezza alimentare previsti dal Reg. (CE) n. 2073/2005: nel caso in cui viene meno uno di questi criteri, l’alimento è a rischio e, automaticamente, la shelf-life del prodotto è compromessa.
Altro elemento cruciale per impostare correttamente la stabilità del prodotto per tutta la sua durata di vita commerciale è scegliere un adeguato materiale per il confezionamento. Come già riportato da Mirko Galliani nel suo articolo, sarà fondamentale la scelta di un materiale non trasparente, per evitare l’ossidazione dei nutrienti, come i grassi, e di molecole che contribuiscono al sapore dello yogurt; va anche detto che, utilizzando preparati di frutta contenenti pigmenti (si pensi, ad esempio, agli antociani dei frutti rossi o al β-carotene nelle albicocche), il rischio di perdita di colore con confezioni trasparenti è elevato e questo implica una perdita in aspetto del prodotto finale. Inoltre, il packaging dovrà proteggere dai danni fisici, impedire la contaminazione microbica ma anche sensoriale dall’esterno verso l’interno e viceversa (nel complesso, dovrà essere un materiale ideale ad evitare determinati scambi gassosi con l’esterno). La confezione non trasparente aiuta anche a nascondere eventuali difetti, come la separazione tra le fasi e il successivo affioramento di panna, che è poco gradevole agli occhi del consumatore, al quale si consiglierà tramite l’etichettatura di “agitare il prodotto prima dell’uso”. Per lo yogurt drink, il materiale di confezionamento più popolare è il flacone in polietilene ad alta densità sigillati con chiusure termosaldate in laminato di alluminio o con tappi a scatto o a vite in polietilene (LDPE) a bassa densità.
Se volete introdurre lo yogurt da bere nella vostra gamma di prodotti, qui potete leggere la storia di successo di Denis Viero dalla quale prendere spunto.
Bibliografia
Gordon L. Robertson, 2009. Food Packaging and Shelf Life: A Practical Guide. CRC Press
Edoardo Fontanella. Shelf-life.Informazioni pratiche per arrivare a definire la durabilità di un prodotto e a prolungare la sua vita commerciale.Laboratorio Chimico Camera di Commercio Torino
Monica Bononi, Fernando Tafeo, 2012. Shelf-life. Tecniche di Monitoraggio e Qualità. Chiriotti Editori srl
Germano Mucchetti, Erasmo Neviani, 2006. Microbiologia e tecnologia lattiero-casearia. Qualità e sicurezza. Tecniche nuove