Vincenzo Tanara e L’economia del cittadino in villa

Il marchese Vincenzo Tanara, nato e morto a Bologna tra il 1644 e il 1669, dapprima al servizio di vari Signori poi dal 1624 magistrato a Bologna, è famoso per aver scritto L’economia del cittadino in villa, un libro che, dopo l’edizione del 1644 pubblicata a Venezia e ampliata nel 1448, conobbe altre nove edizioni, molte delle quali “pirata”, come purtroppo era costume dell’epoca. Tanara, soldato presso varie corti italiane e cacciatore per passione, dopo aver scoperto la biblioteca del Cardinale Sforza, si dedica alla stesura di alcuni scritti che redige nei propri possedimenti di campagna, tipico svago rustico per i cittadini di ceto abbiente. Nella sua opera L’economia del cittadino in villa descrive un’agricoltura bolognese non destinata alla vita e alla sopravvivenza dei contadini, ma bensì all’organizzazione della villa, un’unità produttiva detenuta da una famiglia di rango nobiliare o alto-borghese, orientata non più alla sussistenza, ma ai piaceri della tavola, alle esigenze di mercato e ai calcoli di profitto. Ne L’economia del cittadino in villa abbondano i riferimenti all’uso alimentare delle produzioni, alla loro conservazione ed alle trasformazioni in cucina, con ricche citazioni dotte che si rifanno anche ai testi classici. Particolarmente interessanti sono le parti e i commenti sulle ricette, dettati anche da personali predilezioni gastronomiche dell’autore e dalle sue funzioni di buon padre di famiglia.

I formaggi di Vincenzo Tanara

Siamo a metà del 1600 e l’alimentazione risente ancora ampiamente di concezioni medievali che nei confronti del formaggio nutrono molte perplessità, perché i misteriosi meccanismi della coagulazione e della fermentazione originano sospetti e, per questo, i trattati di dietetica pongono forti limiti al loro consumo. I formaggi sono inoltre cibi poveri, rustici, contadini e non adatti ai cittadini soprattutto se di alto lignaggio. Vincenzo Tanara dedica ai formaggi alcuni aforismi o affermazioni che meritano qualche breve commento.

Pan con occhi, Cacio senz’occhi, Vino che ti salta agli occhi. Giocando sulla parola occhio, se gradito è il pane con piccole cavità provocate dalla lievitazione, altrettanto non lo è il formaggio con occhiature fermentative; questo è un concetto ben evidente per il vino (balzare agli occhi, dice l’enciclopedia Treccani, significa essere o risultare chiaro o evidente) e il concetto è ribadito nella seguente affermazione. Pan leggiero e grave Formaggio, piglia sempre se sei saggio: è la fermentazione che provoca l’occhiatura che rende leggero il pane, e che deve mancare nel formaggio che per questo risulta pesante.

Il formaggio deve esere Argos non largos, Matusalem, Magdalena, / Non Abacuc, Lazarus, Caseus ille bonus. Già Vincenzo Tanara fornisce una prima spiegazione affermando che “detto con licenzioso artificio suona in nostra lingua: Argo, non largo, vecchio, e lagrimoso. Non sia molle il formaggio, e sia crostoso”, ma necessarie sono alcune precisazioni aggiuntive, soprattutto per i richiami a personaggi greci o biblici. Argo Panoptes, in greco antico Argo, che tutto vede, è un gigante che, secondo alcuni miti, ha un occhio, quattro occhi (due davanti e due dietro) o perfino cento e che in quest’ultimo caso dormiva chiudendone cinquanta per volta, mentre altri miti sostengono che avesse infiniti occhi sparsi su tutto il corpo; Argo è quindi sinonimo di occhi che il formaggio non deve avere in abbondanza. Matusalemmeche sarebbe vissuto per oltre novecento anni, è sinonimo di vecchiaia come vecchio è il profeta Abacuc che, secondo alcuni etimologi, avrebbe dato origine alle espressioni italiane di vecchio come il cucco e di vecchio bacucco, con il significato di “evitare i formaggi vecchi”. Maddalena o Maria di Magdala e Lazzaro nei quadri delle chiese sono rappresentati rispettivamente piangenti e coperti di croste, quindi i formaggi che trasudano liquidi o con croste sono da evitare.

Produzione del formaggio

Per Vincenzo Tanara il latte imputridisce perché acquoso e il formaggio migliore è quello di capra e, a seguire, quello di pecora e infine di vacca, come risulta dal seguente distico:

Si lac dulce sapit, subito cur putret? Acquorum est.
Quod praestat? Caprae. Post? Ovis.

La produzione del formaggio è familiare e descritta come segue: “Rompesi il latte quagliato con mane il più minuto che si può, indi con tutte due le mani raddunato in un canto del vaso la di lui parte più grossa se ne leva, da poi benissimo stretto, purgato, e libero di ogni parte acquosa, o seriosa, si ripone e calca in una forma di legno, ove lasciato il nome di latte diviene cacio, e da lui caciato da questa, e da lei un cacio grande chiamasi una forma, o formaggio; chi non preme nella grossezza, la sera subito havuto il latte, si pone a quagliare, acciò non innagrisca (diventi agro, acido), perché molti consigliano, che sia meglio il far cacio la notte; e fra gli altri Numensiano (medico maestro di Galeno), commentato dal Guidalotti (erudito bolognese, ndr.)“.

A parte la molto fantasiosa etimologia di cacio, Vincenzo Tanata prosegue dicendo: “Questo ha tre stati, uno subito fatto, non salato, e chiamasi lattarolo, l’altro d’un mezzo mese salato, o poco più, chiamasi cacio tenero, qual quando sia ben grasso e butirroso chiamasi a Roma Ravagiolo, a Bologna Tomino. L’altro è il cacio vecchio, vitto universale de’ faticanti gagliardi viaggianti, guerreggianti, e simili, ( … ) e a questi è d’ottimo nutrimento, si come nuoce a riposati, a studenti e a convalescenti; questo rende ancora gustosa ogni vivanda nella qual grattato si ponga. ( … )”.

Conclusione di Vincenzo Tanara è che “quest’è una delle tre cose che nel mondo vecchissime sono buone, l’olio, il cacio e il consiglio”.

Formaggi in cucina

Nei confronti del formaggio, Vincenzo Tanara è prodigo di prescrizioni per evitare gli inconvenienti, ma consiglia anche di usarlo declamandone le doti positive che pur non mancano, confermando come ai suoi tempi persistono elementi di una cultura medica medievale che nei loro confronti del formaggio nutre perplessità. Vale ancora il precetto della Scuola Medica salernitana che dice che “solo il formaggio mangiato a piccole dosi non fa male alla salute”, e ancora alla fine del 1400 Bartolomeo Sacchi, detto Il Platina, nel suo De honesta voluptate et valetudine stampato una prima volta a Roma da Han tra il 1473 e il 1475 (anche se i più propendono per il 1474) afferma che il formaggio è “pesante da digerire, nutre mediocramente, non fa bene allo stomaco e all’intestino, genera bile, fa venire la gotta, dolore ai reni, renella e calcoli”. Inoltre, il formaggio è prevalentemente associato alla gastronomia povera, al mondo contadino e dei pastori, per cui difficilmente manca dai menù popolari, come è possibile desumere dai conti d’osteria, e che per questo è presente in diverse ricette della cucina contadina del signore in villa al quale Vincenzo Tanara si rivolge con il suo trattato.

Nel trattato di Vincenzo Tanara si nota una nobilitazione del formaggio, iniziata nei secoli XIV e XV, come cibo di magro, sostitutivo della carne nei giorni di astinenza infrasettimanale, di vigilia e anche di quaresima (dal XIV-XV sec.), ma soprattutto un suo uso in ricette di cucina, dove ha un posto di rilievo il formaggio parmigiano, frutto dell’opera dei monaci delle abbazie con un allevamento bovino stanziale e, di riflesso, una produzione casearia di buona qualità. Lo stesso Platina, un secolo e mezzo prima di Vincenzo Tanara, sosteneva che si contendevano il primato in Italia due tipi di formaggio: il marzolino toscano (pecora) e il piacentino o parmigiano delle regioni cisalpine (vacca) e, dai trattati di Cristoforo di Messisbugo (??? – 1548) e di Pantaleone da Confienza, che nella seconda metà del secolo XV scrive il trattato Summa Lacticiniorum, sappiamo che re, nobili e mercanti non disdegnano nutrirsi di buoni formaggi, soprattutto quando questo alimento è utilizzato in cucina. Come testimoniano molti scritti, il suo impiego si diversifica in funzione del fatto che sia fresco o stagionato: nel primo caso pestato e mescolato ad altri ingredienti come uova ed erbe e per formare pasticci e torte, nel secondo caso grattugiato e nelle preparazioni assieme a quello fresco utilizzato in molte altre ricette.

Nella cucina di Vincenzo Tanara un ruolo particolare ha il formaggio parmigiano o cacio di Parma che si trova in diverse ricette: zuppa detta bagnata, pagnotta ripiena, preparazione delle polpette, trippe (con una ricetta chiara antesignana della trippa alla parmigiana) e animelle, condimento di paste ancor oggi note (strozzapreti o gnocchi, come secoli prima è ricordato da Giovanni Boccaccio nella descrizione del Paese di Bengodi) e di castagnacci.

Formaggi da cibo povero a cibo d’élite gastronomica

Per una nobilitazione dei formaggi si deve però aspettare il 1700, con la moda arcadica delle pastorellerie, opere letterarie di genere pastorale in cui sono esaltati i cibi genuini come il latte e i formaggi, e quando, con l’Illuminismo, inizia una rivoluzione che produce importanti e inevitabili modifiche alle modalità di produzione casearie che si ampliano per coprire le accresciute esigenze, e inizia una marcata contrapposizione tra la produzione contadina, esigua nel numero e volta unicamente alla sussistenza dei nuclei famigliari rurali, e la produzione artigianale per le nuove esigenze cittadine, nata a seguito del progresso industriale e che in modo graduale caratterizzerà la produzione casearia dei secoli successivi. In questa prospettiva storica, Vincenzo Tanara si pone come un importante testimone nella lunga strada di evoluzione dei formaggi e del loro passaggio da cibo povero a cibo d’élite gastronomica.

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.