Formaggi italiani antichissima tradizione

Sin dalla preistoria il formaggio è presente nell’alimentazione umana, unitamente all’allevamento dei primi ruminanti, per concentrare e soprattutto conservare quel cibo della vita che è il latte con le sue virtù, trasformando un alimento in un atto di civiltà, sviluppo umano e d’identità culturale, dandogli anche una “forma” (da qui il termine di formaggio). Al momento, la fonte più antica che testimonia con particolare precisione le fasi di lavorazione del latte è un bassorilievo sumero datato III millennio a. C. e soprannominato “Fregio della latteria”, nel quale sono rappresentati dei sacerdoti impegnati nella lavorazione del latte. Nel 5000 a. C. in Italia si diffonde l’allevamento di ovini e caprini e fonti archeologiche permettono di datare al 2800 a. C. l’inizio della produzione di un formaggio molle. Il formaggio più antico del mondo che ci è pervenuto risale all’Età del Bronzo ed è stato rinvenuto sul petto e sul collo di una mummia ritrovata nella parte nordoccidentale della Cina (nel deserto Taklamakan) risalente al 1615 a. C.. Ogni cultura e identità culturale ha dato origine a un suo formaggio e l’Italia, con le sue grandissime diversità orografiche, climatiche e culturali ha dato origine a circa 490 tipi di formaggi, tra freschi, spalmabili e stagionati, che con le loro varietà locali si ritiene raggiungano il numero di circa 1400, dei quali oltre 300 sono riconosciuti d’origine protetta (DOP, IGP e PAT) e 52 sono protetti a livello europeo (DOP e IGP). Ad oggi l’Italia è la terza nazione europea per produzione di formaggio (con un milione e trecentomila tonnellate), alle spalle di Francia e Germania e con la regione Lombardia in testa per il maggior numero di formaggi. Circa 6600 sono i caseifici italiani censiti dalla Direzione Generale per l’Igiene e la Sicurezza degli Alimenti e la Nutrizione, ognuno dei quali ha il proprio patrimonio di conoscenze specifiche che costituiscono un prezioso deposito di tradizioni casearie. Un numero significativo di caseifici italiani possiede anche e valorizza un patrimonio architettonico e talvolta storico, soprattutto nei locali di stagionatura, maturazione e affinamento dei formaggi, come le numerose grotte e fosse di stagionatura romagnole e marchigiane o le grotte alpine, o anche le grotte naturali e persino il tunnel ferroviari riformati o vecchie fortezze militari di montagna.

La storia del formaggio è anche storia dell’Italia

La storia dei popoli che hanno popolato l’Italia s’intreccia con quella dei loro formaggi, mescolandosi al ruolo dei miti e dei riti religiosi. Strettamente unito con la storia italiana e le sue tradizioni, il formaggio è innanzitutto un prodotto locale, spesso prodotto in un’area geografica limitata e secondo metodi molto caratteristici. Ripercorrere sia pure per cenni la storia dei formaggi e dei caseifici italiani è ripercorrere la storia dei popoli italici, da un lontano passato ad oggi. Nell’antichità dei formaggi in diversi paesi attorno al Mediterraneo, la prima dettagliata descrizione di un caseificio è in Italia e più precisamente in Sicilia dove nel VI-VIII secolo a. C. è situato il caseificio descritto da Omero nell’Odissea e nel quale il ciclope Polifemo produce e stagiona formaggio di latte misto ovicaprino. Gli Etruschi usano il formaggio grattugiandolo nel vino come fanno i greci e ci hanno lasciato le loro grattugie di bronzo. Fra i Greci, il primo a parlare di caseificio è Ippocrate (468 – 377 a. C.) e i romani apprendono la tecnica casearia dagli Etruschi e dalle colonie greche dell’Italia meridionale che vanno conquistando. Nella Roma repubblicana e imperiale si produce il caseus, parola dalla quale derivano i termini ancora oggi usati di cacio e caseificazione, e Lucio Moderato Columella (4 – 70 d. C.) nel De Re Rustica ne descrive con precisi particolari la fabbricazione. I formaggi sono inoltre ingredienti immancabili in molti piatti romani descritti dal gastronomo Marco Gavio Apicio nel De Re Coquinaria, Marco Valerio Marziale (38 – 104 d. C.) elenca cinque varietà di formaggi con le loro origini e Gaio Plinio Secondo, nella Naturalis Historia, parla di formaggi di vacca, pecora e capra e dei principali centri di produzione casearia che riforniscono Roma, dando una mappa dell’industria casearia italiana di 2000 anni fa. Durante i mille anni del Medioevo il Codex Dìplomaticus Longobardiae enumera i prodotti caseari del tempo. Dopo l’anno mille, nella media valle del Po, i monaci cistercensi costruiscono le loro abbazie con le annesse grance dove si producono formaggi vaccini a lunga stagionatura, e tra questi i lodigiani, piacentini e parmigiani, divenendo il maggior emporio caseario d’Europa. Alla fine del XV secolo Pantaleone da Confienza scrive la Summa Lacticinorum, il primo trattato del mondo sui formaggi. In seguito i formaggi italiani sono oggetto di sempre maggiori attenzioni anche in tavola, per arrivare alla nascita del Regno d’Italia quando a Teano, il 26 ottobre 1860, Giuseppe Garibaldi saluta Vittorio Emanuele come primo Re d’Italia e poi sotto un albero si riposa mangiando pane e cacio. E da qui si prosegue fino a giorni nostri.

Formaggi italiani dall’identità alla continuità

L’Italia, dalle Alpi alla Sicilia, ha una diversità ambientale e climatica unica, come quella delle popolazioni che l’abitano, frutto del passaggio dei popoli più diversi fin dalla più lontana preistoria come confermano anche le odierne analisi genomiche. Diversità ambientali e di popolazioni interagendo tra loro hanno portato alla creazione e allo sviluppo di tipologie agroalimentari e di stili di vita diversi da luogo a luogo e da qui anche la grande diversità di formaggi italiani, ognuno dei quali ha una relazione speciale con lo spazio e il tempo. Ognuno dei 1400 formaggi italiani ha infatti radici ambientali, storiche e di pratiche collettive peculiari, e ogni produzione locale combina spazio, tempo, esperienze e gusti condivisi. Ogni formaggio ha quindi una storia diversa legata alla memoria che trasmette, essendo il risultato di un accumulo di conoscenze, pratiche, osservazioni, adattamenti che sono da mettere in relazione alla rappresentazione che ne viene fatta. La vita si evolve negli animali e nei vegetali, ma anche nei microrganismi ambientali (microbiota) che occupano un posto considerevole nello sviluppo dei formaggi e soprattutto nella loro caratterizzazione, svolgendo un ruolo decisivo nei processi di maturazione e fermentazione, associati o meno a tecniche che possono essere estremamente complesse nelle varie fasi di intervento sul materiale vivente. In pratica, specie, razza e alimentazione degli animali che producono il latte, temperatura e tempo di riscaldamento del latte, scelta del fermento, dimensione della cagliata, intensità della pressatura dell’impasto, trattamento accordato alla crosta, frequenza di rigiratura, grado di igrometria sono tutti parametri che interferendo con il microbiota ambientale danno origine ai legami che ogni formaggio artigianale ha con il territorio, creando le diversità che conosciamo. Per questo lo studio delle produzioni tipiche locali dei formaggi, cercandone l’origine, la tradizione e il ruolo della posizione geografica, richiede un’attenta e meticolosa identificazione delle modalità di intervento e della loro evoluzione, per evitare il rischio di usare la storia, e talvolta anche un solo nome, per legittimare produzioni pseudo-ereditarie semplicemente sfruttando la reputazione di un luogo senza fare riferimento alla specificità del prodotto.

Formaggi tipici italiani e tradizione orale e operativa

Molte tecniche di produzione casearie si sono sviluppate empiricamente e quasi mai sono trascritte su carta ma tramandate secondo il principio che l’esempio è il miglior modo d’insegnamento e di trasmissione di una pratica che in questo modo diviene tradizione. Ad esempio, è la mano del casaro che immerge il braccio nel latte della caldaia del latte e palpa la struttura e la consistenza della cagliata per dare il ritmo alle fasi di produzione e insegna questa sensazione a chi lo sostituirà, unitamente alle ricette che sono tramandate oralmente di generazione in generazione. L’uso della scrittura era inesistente e ancora oggi per gran parte dei formaggi artigianali è solo un supporto all’informazione orale. La parola scritta sembra essere una solida garanzia di credibilità ma spesso la si confonde con una dimensione storica che invece deve raccogliere anche i racconti orali. Uno studio che si basi solo sui documenti scritti ha indubbie difficoltà a seguire tecniche che variano in base alla geografia e ai tempi attraverso i quali si sono sviluppati gran parte, se non tutti, i formaggi tradizionali italiani con le loro molte varianti associate a luoghi diversi. Oggi, sempre più si vogliono, giustamente, avere formaggi con caratteristiche uniformi, senza difetti, con tracciabilità ed elevati standard di igiene e per questo si usano procedure standardizzate e scritte e dove si individuano i punti critici, i ben noti HACCP. Queste misure, di cui difficilmente potremmo fare a meno, tendono a portare a produzioni sempre meno ricche a livello culturale e ad un impoverimento della diversità e delle tradizioni originarie, nelle quali le testimonianze orali raccolte dagli anziani hanno poco peso rispetto al documento scritto perché nell’odierna cultura industriale la conoscenza acquisita dall’esperienza e trasmessa dagli antichi ha uno status subordinato rispetto a quella acquisita nei libri e il ruolo della conoscenza locale, difficile da identificare e descrivere, tende a diminuire. La regola scritta si oppone alle pratiche orali, dirige e forza le scelte per avere produzioni uniformi, allontanandosi da produzioni che erano multiformi, viventi e in continua evoluzione e riducendo, se non distruggendo, la diversità che rischiamo di non trasmettere alle generazioni future.

Formaggi italiani patrimonio di diversità e creatività

La diversità e la varietà dei formaggi italiani, che riflette la diversità dei territori con le loro differenze pedologiche, climatiche, di microbioti, di specie e razze animali e loro alimentazioni, costituisce un irripetibile patrimonio culturale che si esprime nella grande varietà di formaggi, ognuno con una forma, una consistenza, un aroma e un gusto tipico, e che nel loro insieme costituiscono una materia delicata e vivente in cui sono immerse identità e tradizioni, perché il formaggio respira l’anima della terra e dei suoi abitanti. Charles de Gaulle nel 1962 afferma la difficoltà di governare la Francia, un paese che offre 246 varietà di formaggi, e Winston Churchill durante l’occupazione tedesca aveva dichiarato che la Francia, un paese in grado di dare al mondo 360 formaggi, non poteva morire. Cosa dire dell’Italia con i suoi oltre 1400 formaggi che rappresentano la creatività del nostro paese e che testimoniano la dimensione della sua antichissima cultura e civiltà?

Il patrimonio culturale dei formaggi ha un valore sociale che dà vita alle nostre campagne, contribuisce alla ricchezza del paese, aumenta il reddito agricolo e mantiene l’economia in zone rurali altrimenti abbandonate dove la presenza di un caseificio spesso determina anche la presenza di una scuola, un ufficio postale e l’esistenza di artigiani. Il produttore di formaggi dipende interamente dalle stagioni, dal clima, dalla natura e dagli animali, ed è in linea con il suo ambiente, del quale si sente responsabile e custode, cercando di utilizzare il minor numero di trattamenti possibile e rispettando uno sviluppo sostenibile sapendo utilizzare al meglio i fertilizzanti ma soprattutto il letame della mandria. L’arte casearia, forma ancestrale di civiltà, porta al rispetto dei valori dando senso al lavoro, all’ospitalità e alla solidarietà, con un’eccezionale influenza sulla gastronomia. Le numerose feste paesane, i riti e le tradizioni popolari intorno al formaggio sono una chiara testimonianza del ruolo attivo di questa produzione nel mantenere legami nelle nostre società moderne sempre più individualiste.

Formaggi e microbiota naturale

Negli ultimi anni sono stati fatti molti sforzi per proteggere il patrimonio del formaggio, ma queste misure non sono sufficienti perché l’industrializzazione e la concentrazione della produzione mettono in pericolo il patrimonio culturale dei 1400 formaggi italiani. Le tecniche di pastorizzazione, termizzazione o microfiltrazione hanno un impatto negativo sul gusto dei formaggi. È dimostrato che specie e razza degli animali e la loro alimentazione hanno un effetto importante sulle caratteristiche sensoriali dei formaggi e l’orientamento o l’altitudine di un pascolo si traduce in composizioni floristiche molto varie chee provocano differenze nella consistenza e nel sapore. Il confronto tra formaggi a media e lunga maturazione preparati con latte crudo e latte pastorizzato rivela differenze significative nell’intensità dell’aroma, sapore, gusto e tipicità, ed è unanimemente riconosciuto che i formaggi a latte crudo hanno una ricchezza floreale e aromatica senza pari. Più è varia la flora del microbiota dell’ambiente e del latte meno è anche probabile la presenza di microrganismi nocivi. La persistenza e futuro dei formaggi a latte crudo dipende quindi dalla vigilanza del settore, dalla sua nobilitazione, dalle autorità pubbliche e, soprattutto, dal potere di persuasione dei nostri rappresentanti alle autorità internazionali perché l’uso diffuso di fermenti porta a formaggi standardizzati e non consente di riprodurre la ricchezza aromatica e la diversità dei mille territori dei quali l’Italia è costituita.

Formaggi italiani e cultura gastronomica

I formaggi italiani sono parte integrante della gastronomia del nostro paese con le sue mille declinazioni, per le quali uno stesso modello culinario varia da luogo a luogo con una diversità nella quale i formaggi hanno una notevole importanza per impedire un impoverimento della cucina e della gastronomia con perdita dei loro valori di identità. Innumerevoli sono gli esempi del ruolo dei formaggi nella tipicità gastronomica, partendo dai piatti (apparentemente) più semplici come il tipo e qualità della mozzarella per la pizza, del pecorino da usare per il cacio e pepe, o di quale formaggio grana impiegare per le paste in brodo o asciutte della pianura padana e via dicendo.

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.