Serendipità, invenzioni e leggende

Serendipità o serendipity, termine attribuito per la prima volta allo scrittore inglese Horace Walpole IV, Conte di Orford (1717 – 1797), indica una scoperta fatta per caso o trovare una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra.

La serendipità è un tipico elemento della ricerca che caratterizza la mente umana, che però si concretizza solo quando la curiosità si trasforma in una nuova idea e non raramente diviene una leggenda. Tipica è la leggenda attribuita a Isaac Newton (1642 –1726) che, vedendo cadere una mela, si chiede perché la luna non cada sulla terra e avvia una ricerca che lo porta alla formulazione della Legge della Gravitazione Universale; tutti avevano visto cadere le mele ma nessuno aveva connesso questa caduta al moto lunare, e tanto meno al movimento dei pianeti. In modo analogo, quando il microbiologo Alexander Fleming (1881 – 1955), esaminando lo sviluppo di microrganismi su una cultura su una piastra Petri, vede che attorno a una colonia di una muffa non vi sono colonie di batteri, fenomeno peraltro che tanti altri avano visto, pensa ad una molecola capace di inibire o uccidere i microbi e, cercandola, scopre la penicillina. La serendipità è certamente alla base delle prime ma basilari scoperte e invenzioni che riguardano la trasformazione e la conservazione degli alimenti e l’elaborazione e sviluppo delle veterotecnologie casearie, spesso raccontate soltanto come leggende.

La leggenda è un racconto antico, come il mito o la favola, e fa parte del patrimonio culturale di tutti i popoli, divenendo tradizione orale. Le leggende si rivolgono alla collettività e come i miti spiegano l’origine delle cose o di qualche aspetto dell’ambiente, o le regole e i modelli da seguire, con lo scopo di rinsaldare i legami d’appartenenza alla comunità. Se le leggende sono racconti orali, quanto è prodotto secondo una leggenda diviene lui stesso una legenda: questo è il caso di alimenti creati dall’uomo, per cui un formaggio nato secondo una leggenda diviene esso stesso leggenda.

Leggende e miti sull’invenzione del formaggio

Che il latte coaguli lo sanno tutti e da sempre. Lo sanno le madri che dopo aver allattato vedono che il piccolo facendo il “ruttino” emette qualche coagulo di latte, lo vedono le donne quando il latte è mantenuto in un recipiente e se ne accorgono i pastori che lo trasportano in una bisaccia ricavata dallo stomaco di una pecora. Ma il latte coagulato non è formaggio, che invece nasce per serendipità quando una donna o un pastore pensa di raccogliere il coagulo, comprimerlo in una tela o in un canestro a fitte maglie e, soprattutto, di conservarlo asciugandolo o aggiungendo del sale. Che il sale conservi gli alimenti con ogni probabilità è stato scoperto quando in una pozza d’acqua marina prosciugata dal sole vi sono pesci asciugati e conservati dal sale e l’uomo li raccoglie per cibarsene, ma è frutto di serendipità quando un uomo attribuisce alla polvere (sale) che ricopre il pesce la virtù di conservarlo e poi costruisce laghetti artificiali d’acqua di mare (saline) per produrre il sale.

Per far conoscere e diffondere la produzione del formaggio, l’uomo crea il mito: nella mitologia greca e poi romana sono le ninfe di Ermes ad insegnare ad Aristeo, figlio di Apollo, divinità protettrice del bestiame e dell’agricoltura, l’arte della vita pastorale e della produzione del formaggio, consentendone la diffusione tra i mortali. Per dare credito al valore di questo alimento, il mito racconta che è principale fonte di alimentazione di Zeus, nutrito con il latte e i formaggi della capra Amaltea. Solo in seguito dal mito si passa al racconto razionale o “scientifico” e Aristotele, nel trattato Storia degli animali, (IV secolo a. C.), narra del latte fatto coagulare con lattice di fico e con fiori di cardo, o con il caglio ricavato dallo stomaco di agnelli o capretti, mentre il medico greco Ippocrate (I sec. a. C.) raccomanda il formaggio per il suo valore nutrizionale e per gli effetti terapeutici.

Non sappiamo quali leggende o miti accompagnano il formaggio (per ora) più antico del mondo, rinvenuto sul petto e sul collo di una mummia dell’Età del bronzo, ritrovata nel deserto Taklamakan nella parte nordoccidentale della Cina e risalente al 1615 a. C., come viatico per il viaggio nell’aldilà. L’analisi dei grumi di formaggio ha rivelato che si tratta di un formaggio a coagulazione lattica prodotto senza l’uso di caglio, per molti versi affine al kefir, con un basso contenuto di sale e destinato ad un consumo locale.

La leggenda dei formaggi di Carlo Magno

Già i romani del periodo imperiale portano alcuni formaggi a livello gastronomico. Ne sono testimoni Marco Valerio Marziale (39? – 104 d. C.) nei suoi epigrammi e il gastronomo e cuoco Marco Gavio Apicio (I – II secolo d. C.), ma nel medioevo il formaggio diviene il sostituto povero della carne nei giorni di astinenza infrasettimanale di Vigilia e Quaresima, destinato ai pellegrini. Gli ignoti e misteriosi meccanismi di coagulazione e fermentazione del formaggio sono assimilati alla putrefazione e visti con sospetto, e i trattati di dietetica ne limitavano il consumo, in quanto si ritieneva che solo piccole dosi di formaggio non nuocessero alla salute. Da qui la necessità di leggende per nobilitare il formaggio, facendone un cibo dei ricchi monaci cistercensi che costruiscono le abbazie e lo producono nelle annesse grange, e soprattutto facendone il cibo che un abate offre a Carlo Magno.

Eginardo (770? – 840? d. C.) scrive la Vita Karoli Magni (830 circa) ispirandosi al De vita Caesarum di Svetonio e narra che, in uno dei suoi viaggi, l’Imperatore Carlo Magno, senza preavviso e in un giorno di magro, arriva in una non ricca abbazia dove si deve accontentare di un pasto di solo pane e di un formaggio con macchie verdi di cui ignora la natura e che con il suo coltello elimina accuratamente. Il priore dell’abbazia fa rispettosamente rilevare all’Imperatore che eliminando la parte verde perde la parte migliore del formaggio e quando l’Imperatore l’assaggia è così convinto che prega l’abate di mandare ogni anno due casse di quel formaggio alla sua reggia di Aix-la-Chapelle. Eginardo non indica con precisione quale sia l’abbazia: oggi si pensa possa essere stata quella di Vabres, piccolo villaggio nei pressi di Roquefort, e ancora oggi il Roquefort è un celebre formaggio erborinato francese, simile all’italiano gorgonzola. Eginardo riporta ancora che Carlo Magno, un giorno dell’anno 774, rientrando dall’Italia dove aveva combattuto contro i Lombardi, si ferma a Reuil-en-Brie dove vi è una famosa abbazia nella quale gusta il formaggio di Brie con la crosta fiorita prodotta da muffe. (Leggi anche “Il formaggio di Carlo Magno“)

Risale al 1277 il primo documento scritto in cui è citato il Castelmagno, un formaggio nato nell’Alta Valle Grana di origini antichissime che si stemperano nella leggenda e il cui nome potrebbe derivare dal santuario di San Magno, edificato per commemorare un soldato dell’esercito romano martirizzato nelle vicine montagne, o addirittura dal nome dell’imperatore Carlo Magno, che si favoleggia ne fosse particolarmente ghiotto. Secondo la leggenda, la prima volta che questo cacio rosso e verrucoso è presentato a Carlo Magno questi, prima di gustarlo lo ripulisce dalle muffe verdi, parte essenziale del formaggio stesso e frutto dell’accurata stagionatura. Solo dopo molte insistenze Carlo Magno si convince ad assaggiarlo nella sua integrità e ne è talmente entusiasta che in seguito il Castelmagno non manca mai alla sua mensa. Molti secoli dopo, Vittorio Amedeo II di Savoia è così goloso di questo formaggio da decretare che la comunità di Castelmagno deve inviare ogni anno, oltre ai denari per il pagamento delle tasse, anche nove rubli di formaggio. Il Castelmagno è anche presente sulle tavole di Papi di Avignone che ne sono grandi estimatori.

Come nascono i formaggi erborinati durante la maturazione dei quali intervengono muffe di diverso tipo? Anche qui sono necessarie leggende.

Leggende dei formaggi erborinati

Tra i numerosissimi formaggi erborinati, due dei più celebri, l’italiano Gorgonzola e il francese Roquefort, hanno una notorietà collegata anche alle leggende sulla loro origine.

Sull’origine del Gorgonzola vi sono diverse ipotesi legate ad antiche leggende popolari. La leggenda più diffusa racconta di un casaro innamorato che, distratto dai pensieri per la sua bella, mescola distrattamente due diverse cagliate che formarono uno strano formaggio. Il suo padrone lo punisce pagandolo con il formaggio nato dal suo sbaglio, che però si rivela buono e saporito. Alla fine il casaro riesce a sposare la ragazza e il dono di nozze che riceve è una forma del suo formaggio. Secondo un’altra leggenda il Gorgonzola nasce nell’879 d. C. quando, presso un caseificio di Milano, un mandriano lascia per una notte del latte cagliato in un contenitore, per poi aggiungervi per sbaglio dell’altro latte cagliato. Pochi giorni dopo l’uomo si accorge di aver creato un formaggio dalle venature verdi che risulta molto appetitoso per la mescolanza delle due cagliate. Non manca infine la leggenda che lo stracchino, formaggio fresco di vacche stanche (stracche) a fine del periodo di lattazione o per la transumanza dagli alpeggi alle stalle di pianura, sia lavorato nelle stalle o vicino a queste, venendo a contatto con del fieno ammuffito che trasmette al formaggio le muffe che lo trasformano in un erborinato. Alcuni ricercatori, tra cui lo studioso dell’alimentazione Renzo Pellati, sostengono che il gorgonzola sia nato nel 1816 presso le grotte naturali della Valsassina, anche se oggi il centro della produzione di questo formaggio è nell’omonimo centro nei pressi di Milano, che un tempo lo produceva con il nome di stracchino di Gorgonzola.

Il Roquefort è un formaggio francese prodotto con latte di pecora e rientra nel gruppo degli erborinati o blue cheese. La storia di questo prodotto è legata ad una leggenda popolare: un pastore, dimenticando il suo formaggio bianco insieme al pane in una grotta, li ritrova in seguito entrambi ammuffiti in quanto il pane ha contaminato il formaggio. Probabilmente è una storia popolare, dal momento che è stato rilevato, grazie al ritrovamento di alcuni reperti archeologici, che le produzioni casearie iniziarono addirittura 3.500 anni a. C.

Il processo dell’erborinatura è stato scoperto conservando e facendo maturare i formaggi in grotte dove l’umidità e la temperatura sono particolarmente favorevoli alla proliferazione di muffe. Il Roquefort risale al 1070, mentre il Gorgonzola all’anno 879, anche se sembra non contenesse venature colorate prima dell’XI secolo. Il formaggio Stilton è invece relativamente recente, comparendo nel XVIII secolo, e molte varietà di formaggi erborinati sono create conseguentemente alla crescente richiesta di formaggio Roquefort di alto prezzo. Dopo le ricerche tecnico-scientifiche iniziate nel XIX secolo, l’erborinatura non ha più bisogno di leggende: è una tecnica di lavorazione casearia che consente lo sviluppo di muffe selezionate nella pasta del formaggio, con la conseguente comparsa di caratteristiche striature e chiazze blu-verdi. Un tempo affidata solo al caso, l’erborinatura è oggi rigorosamente controllata, mentre l’etimologia del termine riporta ad erborin, prezzemolo in dialetto milanese, perché è come vedere delle foglioline di prezzemolo all’interno della pasta del formaggio.

La leggenda del formaggio di Cristoforo Colombo

Il Rinascimento è l’era delle grandi navigazioni e il parmigiano, formaggio vaccino a lunga conservazione, è il preferito dai naviganti che compiono lunghi viaggi che superano anche la linea dell’equatore, sia come cibo che come condimento. Se è noto che già in piena epoca medievale i capitani delle veloci navi arabe navi cuociono la pasta secca in acqua di mare e la condiscono con formaggio pecorino piccante grattugiato, quando possibile aggiungendo il prezioso pepe (ricetta che ancora oggi troviamo nella pasta cacio e pepe), nel Rinascimento sono i capitani delle navi cristiane che nei loro lunghi viaggi oceanici condiscono la pasta con un formaggio come il pecorino che si presta a lunghe e lunghissime conservazioni.

Non è certamente un caso che una delle prime testimonianze sulla commercializzazione del parmigiano risalga ad un atto notarile redatto in una delle più importanti città marinare del Mediterraneo, Genova, città dove fin dal medioevo sono commercializzate botticelle contenenti pasta secca e dove nel 1254 si cita il caseus parmensis (il formaggio di Parma). Non è infine di poco conto il fatto che Domenico Colombo, padre del navigatore Cristoforo, scopritore dell’America, a Savona fosse negoziante di vini e di formaggi, tra i quali quasi certamente anche il parmigiano, due derrate particolarmente importanti per i naviganti. Genova è la prima città nella quale è citato il parmigiano, e non è certamente un caso se si considera che l’origine di questo formaggio è collegata ai monaci cistercensi della pianura padana Non bisogna però dimenticare che proprio a Genova, il 18 ottobre 1120, ventidue anni prima della fondazione dell’Abbazia di Fontevivo (1142), il monaco Anselmo del Bosco, proveniente dalla Francia con altri confratelli, vicino al monastero benedettino di San Colombano fonda la prima abbazia cistercense d’Italia, l’Abbazia di Santa Maria della Croce o Badia di Tiglieto. Per i rapporti che esistevano tra le abbazie cistercensi è facile pensare che l’Abate di Fontevivo abbia fatto omaggio all’Abate di Genova del suo formaggio, che sarebbe così diventato noto ai genovesi che lo avrebbero presto apprezzato come cibo dei loro vascelli, inserendolo anche nel loro pesto in ricette giunte fino a giorni nostri.

Leggende dei formaggi di fossa

Ricchi di leggende sono i Formaggi di Fossa, caratteristici dell’Appennino romagnolo-marchigiano, con zona tipica di produzione nelle province di Forlì-Cesena, Rimini e Pesaro-Urbino. Sulla tecnica di infossatura del formaggio, la leggenda narra che i contadini, per sfuggire alle razzie di milizie e ladri perpetrate ai loro danni a fine estate, nascondono le provviste sottoterra, tra le rocce, in buche naturali o scavate, una condizione questa che permette di conservare il formaggio in attesa del rigido periodo invernale. Secondo una più dettagliata leggenda l’origine del formaggio di fossa risale al 1486 quando Alfonso d’Aragona, figlio del re di Napoli, sconfitto dai francesi, ottiene ospitalità da Girolamo Riario, Signore di Forlì. Le risorse del Signore forlivese però non riescono a lungo a sfamare Alfonso d’Aragona e le sue truppe, e i soldati cominciano ben presto a depredare i contadini delle zone circostanti che, per difendersi, nascondono le provviste nelle fosse di arenaria. Quando a novembre gli eserciti partono e non vi è più pericolo di scorrerie, i contadini con grande sorpresa scoprono che il formaggio invece di ammuffire ha acquistato un ottimo sapore. Un’altra leggenda racconta che l’usanza di far maturare il formaggio in fosse sia un modo per conservare il formaggio senza seccarlo. Se nei secoli passati il formaggio è custodito in fosse per necessità, oggi è invece infossato per ragioni gastronomiche.

Leggende di streghe e fasi lunari

Molte sono le leggende sulle streghe e alcune di queste riguardano anche i formaggi. In Alto Adige la transumanza è un rito secolare: in autunno le mandrie scendono a valle e, insieme alle vacche, i valligiani portano a valle racconti e leggende sulle figure magiche e misteriose delle montagne, come la Strega delle Erbe che si nasconde fra i boschi delle alture e raccoglie erbe aromatiche e fiori durante l’estate per poi lascarli seccare e regalarli ai contadini dei masi. Contenti del dono, i malgari li utilizzano per aromatizzare il formaggio di cui la Strega è ghiotta. La leggenda narra che la sera i malgari, dopo aver fatto il formaggio, ne lasciano fuori dalla porta una fetta per ringraziare la Strega protettrice dei boschi e del loro bestiame tanto prezioso, e da qui nasce il formaggio Strega delle Erbe. In Val Genova, i pastori di un lontano passato portano al pascolo le vacche per averne del buon latte ma non conoscono i segreti per farne del burro, del formaggio o della ricotta, che secondo una leggenda sarebbero stati loro rivelati da un’anziana donna, una strega che abita nell’intrico del sottobosco, nella porta delle streghe.

Nel passato, anche la produzione casearia non è esente da leggende che si rifanno ad azioni delle streghe che con malefici sarebbero capaci di alterare la coagulazione del latte e la maturazione dei formaggi. Ben più importanti e diffuse sono però le tradizioni, credenze popolari o semplici consuetudini degli uomini dei pascoli e dei campi di seguire le fasi lunari per le loro attività, tra cui la produzione dei formaggi. L’interesse per le fasi lunari ed il modo in cui queste condizionano la vita quotidiana è antichissimo, soprattutto nell’allevamento del bestiame e in agricoltura, coinvolgendo anche la produzione casearia. In generale, si suppone che la luna crescente favorisca ogni attività in aumento, e quindi la coagulazione del latte; al contrario, con la luna calante si accelerano i processi di asciugamento, e quindi la maturazione dei formaggi.

Tutte credenze, tuttavia, che un’indagine accurata dimostra essere solo fantasie e che nel passato servivano a coprire fenomeni imprevedibili e non dominabili con le scarse conoscenze disponibili.

Formaggi e leggende di animali

Non rare sono le favole e i racconti di animali che mangiano il formaggio e tra queste Il corvo e la volpe del greco Esopo (620 a. C. – 564 a. C.) e poi dal romano Gaio Giulio Fedro (20/15 a. C. – 51 d. C. circa) e, successivamente, dal francese Jean de la Fontaine (1621 – 1695). «Un corvo aveva trovato sul davanzale della finestra un bel pezzo di formaggio: era proprio la sua passione e volò sul ramo di un albero per mangiarselo in santa pace. Ed ecco passare di là una volpe furbacchiona, che al primo colpo d’occhio notò quel magnifico formaggio giallo. Subito pensò come rubarglielo. “Salire sull’albero non posso” si disse la volpe, “perché lui volerebbe via immediatamente, ed io non ho le ali… Qui bisogna giocare d’astuzia!”.- Che belle penne nere hai! – esclamò allora abbastanza forte per farsi sentire dal corvo; – se la tua voce è bella come le tue penne, tu certo sei il re degli uccelli! Fammela sentire, ti prego! Quel vanitoso del Corvo, sentendosi lodare, non resistette alla tentazione di far udire il suo brutto crà crà!, ma, appena aprì il becco, il pezzo di formaggio gli cadde e la volpe fu ben lesta ad afferrarlo e a scappare, soggiungendo: “Se poi, caro il mio corvo, tu avessi anche il cervello, non ti mancherebbe proprio altro, per diventare re”. Morale: chi si compiace degli elogi altrui troppo adulatori, finisce col pentirsene vergognandosi.» (Esopo, CLXV; Fedro, I, 13.). La favola è un avvertimento contro i pericoli dell’adulazione, Fedro introduce la propria con il verso “Colui che gode d’esser lodato con subdole parole, con tardivo pentimento sconta i suoi castighi” e in Jean de la Fontaine la volpe educa il corvo con la morale a ripagarlo dell’inganno subìto.

Come accade per i conigli legati all’immagine della ghiotta carota, i topi sono associati di frequente a piccoli pezzetti di formaggio di cui, secondo l’immaginario collettivo e moltissime leggende popolari, sarebbero ghiotti. Una passione così forte che li spingerebbe a sfidare le trappole dove il formaggio è utilizzato come esca. Ma se l’associazione tra carota e coniglio risulta vera, non lo è quella che vede topi e formaggio uniti da una grande passione: i roditori sono golosi di ciò che è facilmente reperibile in natura, ovvero frutta, verdura e cereali, mentre ricorrerebbero al formaggio solo se disponibile, perché animali onnivori. Ma ai topi piace il formaggio? I più danno una risposta positiva mentre altri dicono che è soltanto un mito da sfatare. Chi ha ragione? Come in altri casi, entrambi hanno ragione, o meglio non hanno torto, perché bisogna distinguere a quali topi ci si riferisce, se a quelli naturali o civilizzati (oppure di campagna o di città), come vuole un’antica favola. L’opinione che ai topi piaccia il formaggio è ampiamente accettata, almeno nei paesi nei quali questo alimento è diffuso, ma i ricercatori che hanno studiato i gusti alimentari di questi animali affermano che la loro dieta naturale è a base di frutta e cereali, entrambi ricchi di zuccheri, concludendo che per loro un pezzo di cioccolato sarebbe molto più attraente del formaggio. Chi ha ragione? Anche in questo caso bisogna distinguere partendo dal fatto che i comportamenti alimentari, soprattutto nelle specie di animali onnivori e di successo, come i topi e l’uomo, sono duttili e cambiano nel tempo e nello spazio.

I topi sono onnivori e in natura si cibano di frutta e cereali, ma non bisogna dimenticare che uno dei fattori del loro indubitabile successo, che gli ha permesso di diffondersi in tutto il mondo, è che hanno la capacità di nutrirsi di nuovi alimenti, sviluppando comportamenti che divengono tipici delle singole colonie e che sono trasmessi da una generazione all’altra. Quando una colonia di topi si trova di fronte ad un nuovo oggetto che potrebbe divenire alimento, un topo, che possiamo definire “topo assaggiatore”, ne mangia una piccola quantità e se non sta bene lancia un grido d’allarme per cui né lui né gli altri della sua colonia mangeranno quel cibo. Se invece il topo sta bene, lo comunica agli altri della colonia, il nuovo cibo entra a far parte della loro dieta e le madri lo insegnano ai figli. In questo modo, da colonie di topi selvatici o di campagna che si nutrono di vegetali, cereali, frutta, e che possiamo chiamare come nella favola “topi di campagna”, si formano colonie di topi, che possiamo chiamare “topi di città”, che hanno imparato a mangiare, con successo e piacere, i cibi dell’uomo, e tra questi anche i formaggi. Abbiamo così colonie di topi che nell’Antico Egitto e in tanti altri paesi mangiano i cereali contenuti nelle giare o nei granai, colonie di topi che nelle nostre cantine mangiano salumi e formaggio, e in Svizzera si potrebbero avere topi amanti della cioccolata; allo stesso modo i topi delle navi avevano imparato a mangiare cibi diversi di quelli dei loro fratelli di terra.

La leggenda del coltello del pecorino toscano

Si racconta che negli anni Sessanta del secolo scorso nelle fattorie toscane si produce tutto in necessario per il sostentamento delle famiglie contadine: il grano, il vino, l’olio e, ovviamente, il latte ed il formaggio, la cui produzione è governata dal vergaio, che prende il nome dalla verga, un bastone fatto di legno di corniolo usato come uno scettro per separare il bestiame. Il formaggio è prodotto nella vergheria e stagionato nella caciaia, dove il vergaro usa un particolare coltello con un’ampia lama che serve per tagliare la forma e per porgere la fetta tagliata. Un coltello che secondo una legenda se non è stato inventato è almeno diffuso da un coltellinaio di Scarperia che diventa l’artigiano più ricco del paese.

Formaggi non solo leggende ma anche aforismi

Per terminare alcuni aforismi sui formaggi.

Il formaggio costituisce, con il pane e il vino, la trinità della tavola europea (Michel Tournier).

Ogni formaggio aspetta il suo cliente, si atteggia in modo d’attrarlo, con una sostenutezza o granulosità un po’ altezzosa, o al contrario sciogliendosi in un arrendevole abbandono (Italo Calvino, Palomar).

Una fine di pasto senza formaggio è come una bella donna senza un occhio (Jean Anthèlme Brillat-Savarin).

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.