Dolce vita nella Roma dei passati anni sessanta
Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta del Novecento, in un’Italia che in un modo quasi miracoloso si sta riprendendo dalle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale, Roma è una città estremamente viva. Sono gli anni del boom economico, esplode la voglia di vivere e di godersi la bellezza, il clima e i divertimenti di una delle città più belle del mondo. A Cinecittà si girano film italiani mentre le produzioni cinematografiche americane portano a Roma le stelle di Hollywood. È il tempo identificato come dolce vita, denominazione che deriva dal film “La Dolce Vita” che Federico Fellini gira nel 1960 e che evoca uno stile di vita spensierato e dedito ai piaceri mondani, con i due derivati di dolcevitaiolo e dolcevitoso. È anche il tempo di scandali, come un inatteso spogliarello della ballerina turco-armena Aïché Nana durante una festa privata tenutasi al ristorante Rugantino di Trastevere nel novembre del 1958. La dolce vita di Roma si svolge attorno a Via Veneto che, per la presenza degli hotel più lussuosi e dei locali aperti fino all’alba, diviene il punto di raccolta di tutti i nottambuli. Icone della dolce vita sono i fotografi scandalistici, che dopo l’uscita del film di Federico Fellini sono denominati paparazzi. Non manca neppure un notevole fermento culturale: ai tavolini dei bar di Piazza del Popolo discutono intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino e Goffredo Parise, i Poeti Novissimi, gli scrittori di neoavanguardia del Gruppo 63, come Nanni Balestrini e Umberto Eco, i giornalisti Ennio Flaiano, Vittorio Veltroni e Lello Bersani; mentre nelle vicine gallerie d’arte espongono artisti come Mario Schifano e fanno furore locali come la discoteca Piper Club, dove si esibiscono gli artisti più importanti dell’epoca.
Cucina romana e della Dolce Vita
Al fervore della dolce vita romana non manca di partecipare la cucina romanesca, fatta di ricette povere, agresti e di recupero ma capaci di conquistare i palati più raffinati e quelli geograficamente e culturalmente più lontani, in virtù di una genuinità unica e ineguagliabile. A Roma, sede di antiche nobiltà e crocevia di popoli, la tavola ha sempre avuto un ruolo centrale nella vita socio-economica. Fin dal Cinquecento, la Capitale vede crescere il numero delle osterie dove la gente del popolo va a ristorarsi e a svagare il cuore e la mente, dimenticando la miseria; mentre tra le mura dei palazzi cardinalizi si gode della nuova cucina di Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Pio V e autore di una splendida opera sull’arte del cucinare. Con l’avvento della Controriforma, e dei digiuni e mangiar di magro, la vita nelle locande continua a scorrere gioiosa, come secoli dopo è descritta nei versi di Giuseppe Gioacchino Belli e di altri artisti e letterati, mentre sulle tavole delle famiglie si continua a celebrare la cucina delle tradizioni: una cucina romanesca che è il frutto della combinazione di alcuni elementi dominanti. La generosa campagna romana con le sue erbe, verdure, ortaggi è alla base delle ricette popolari romane. L’Agro Romano è terra di pastori e allevatori, e la carne bovina di tradizione macellara romana risale al Rinascimento, mentre i formaggi tipici, unitamente all’abbacchio, ovvero l’agnello da latte, sono da secoli protagonisti delle tavole romane. Un ruolo decisivo nella cucina romana ha l’apporto della cultura giudaica che porta alla nascita di una cucina giudaico-romanesca. Un altro dei pilastri della cucina romana è senza alcun dubbio il quinto quarto costituito dalle frattaglie provenienti dal Mattatoio del Testaccio e che danno origine a piatti come la coda alla vaccinara, le animelle fritte dorate e la trippa alla romana. Da ultimo non sono da dimenticare le influenze regionali che, soprattutto dal periodo post-unitario contribuiscono all’evoluzione della cucina tradizionale, quando con l’annessione (1870) e la proclamazione a capitale del Regno d’Italia (1871) Roma vede una grande espansione urbana e l’arrivo di folte schiere di lavoratori provenienti dall’Alto Lazio, dall’Umbria e dall’Abruzzo che con le loro ricette e materie prime sono preziose per la nascita e la diffusione di alcuni piatti che tengono alto il nome della cucina romana nel mondo, dalla Gricia all’Amatriciana. Nel periodo della Dolce Vita i cinematografari prevalentemente si riuniscono nelle trattorie di Trastevere dove si serve l’Amatriciana e la Gricia, che diventa anche Carbonara, e tra le frattaglie un posto di primo piano è rivestito dalla Coda alla Vaccinara, mentre il mondo di Via Veneto conosce e apprezza una più nobile cucina del burro e della panna di Alfredo Di Lelio e di Cesarina Masi.
Fettuccine Alfredo al doppio burro
Come testimonia Ines Di Lelio, nipote di Alfredo Di Lelio, inventore delle “fettuccine all’Alfredo“, il nonno Alfredo, nato nel settembre del 1883 a Roma in Vicolo di Santa Maria in Trastevere, fin da ragazzo comincia a lavorare nella piccola trattoria di sua madre Angelina in Piazza Rosa, un piccolo slargo dove ora esiste la Galleria Colonna, oggi Galleria Sordi. Nel 1908 nasce il figlio Armando e, contemporaneamente, nella trattoria di Piazza Rosa vengono alla luce le fettuccine che Alfredo Di Lelio inventa per dare un ricostituente naturale, a base di burro e parmigiano, a sua moglie Ines, prostrata dal parto del suo primogenito. Il piatto ha un successo familiare prima ancora di diventare il piatto che rende noto e popolare Alfredo Di Lelio, personaggio con i baffi all’Umberto ed i calli alle mani a forza di mischiare le sue fettuccine davanti ai clienti sempre più numerosi.
Nel 1914, a seguito della chiusura della trattoria per la costruzione della Galleria Colonna, Alfredo Di Lelio apre a Roma il ristorante Alfredo, che gestisce fino al 1943. Durante gli anni trenta le fettuccine sono servite ai clienti con due posate di metallo prezioso: una forchetta ed un cucchiaio d’oro regalati nel 1927 ad Alfredo dai due noti attori americani Mary Pickford e Douglas Fairbanks in segno di gratitudine per l’ospitalità. In questo periodo Alfredo è grande amico di Ettore Petrolini, che ha conosciuto nei primi anni del Novecento, e proprio Petrolini, già attore famoso, un giorno andando a trovare l’amico Alfredo, dopo averlo abbracciato, gli dice: “Alfré adesso famme vede che sai fa”. Alfredo dopo essersi esibito nel suo tipico show, nel quale mischia le fettuccine fumanti con le sue posate d’oro davanti ai clienti, si avvicina al suo amico Ettore che commenta “Meno male che non hai fatto l’attore perché posto per tutti e due nun c’era” e consiglia ad Alfredo di tappezzare le pareti del ristorante con le sue foto insieme ai clienti più famosi.
Nel 1950 Alfredo di Lelio, insieme al figlio Armando, in Piazza Augusto Imperatore n.30 apre il ristorante Il Vero Alfredo, noto anche come Alfredo di Roma. Nel nuovo ristorante e negli anni della Dolce Vita, Alfredo Di Lelio ottiene un grande successo di pubblico e di clienti, con un flusso continuo di turisti da ogni parte del mondo per assaggiare le famose fettuccine all’Alfredo al doppio burro. Sulla scia di questo successo, il ristorante diviene una meta delle star americane degli anni sessanta e dei frequentatori della Dolce Vita romana che contribuiscono al successo del piatto anche oltreoceano.
Tortellini alla panna di Cesarina Masi
Quando si parla di tortellini alla panna, i puristi e gli integerrimi tradizionalisti storcono il naso giungendo a gridare allo scandalo, mentre si dimentica che la cucina con le sue ricette è evoluzione e che la tradizione non è un’urna di antiche ceneri da venerare, ma un fuoco da tenere acceso con la legna del momento. Altri potrebbero ritenere che i tortellini alla panna siano stati inventati da un certo cuoco e sicuramente non lo crederebbero perché questa ricetta, per coloro che sono nati dopo la Seconda Guerra Mondiale, sembra essere uno di quei piatti che esistono da sempre. Pare proprio invece che i tortellini alla panna abbiano un autore, anzi un’autrice, e che questa sia Cesarina Masi di Bologna, patria dei tortellini.
Cesarina inizia la sua attività a Bologna negli anni quaranta del Novecento, in un’osteria in via degli Albari gestita insieme con la madre Artemisia. Cesarina è una donna imponente con un carattere duro che deve fare fronte alle sempre più forti restrizioni belliche e fare i classici tortellini secondo la tradizione bolognese è sempre più difficile se non impossibile, per questo Cesarina cerca nuove strade. Se durante la guerra i grassi sono razionati è pur sempre possibile trovare un poco di latte, anche quando nel 1944 Bologna è dichiarata città aperta e dentro la città sono portate anche mucche per salvarle dalle razzie tedesche. Dal latte è possibile ottenere la panna che serve per dare sapore e gusto ai tortellini cotti in un brodo fatto quasi esclusivamente con ossa. I tortellini alla panna hanno un buon successo anche quando, finita la guerra, le due donne si trasferiscono in via de’ Fusari e poi nel 1947 in via Santo Stefano, con un ristorante con il nome di Cesarina. I tortellini che ora possono essere preparati secondo la tradizione sono serviti comunque alla panna, consacrando la fama di Cesarina come grande cuoca, e per molti anni nel dopoguerra Cesarina e il ristorante che porta il suo nome sono meta dei buongustai. Negli anni sessanta Cesarina, con il matrimonio della figlia, chiude il ristorante di Bologna e si trasferisce a Roma in via Sicilia 209, vicino a Via Veneto. La strada diventata protagonista della Dolce Vita di Federico Fellini, e proprio il romagnolo Fellini e il mondo del cinema sono tra i suoi primi clienti, seguiti poi dai politici. A Roma Cesarina diviene la regina delle minestre asciutte e in brodo ma il punto forte del ristorante romano sono i tortellini alla panna in testa, e in chiusura un fritto di crema che tutti ordinano.
I tortellini alla panna di Cesarina hanno un segreto che è divulgato dalla Dotta Confraternita del Tortellino che ha lo scopo di diffondere e difendere le ricette della cucina emiliana, e in particolare la ricetta del tortellino. Il segreto della bontà sta nella panna che deve essere scremata direttamente dal latte appena munto, come faceva Cesarina già nei tempi della guerra. Un suggerimento, o meglio una regola, della Confraternita dovuto al fatto che la panna fresca non è come le panne industriali, sottoposte a diversi trattamenti e con lunghi periodi di conservazione, per non parlare delle panne spray, che non esaltano il sapore del ripieno come sa fare il brodo ma lo mascherano. Non è tuttavia facile, anche se non è impossibile, trovare panna scremata da latte appena munto, necessario per una cucina della Dolce Vita.
Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie.
Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri.
Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.