Animali domestici vincitori e sconfitti

Molta attenzione è stata dedicata ai successi dell’addomesticamento degli animali e, tra questi, delle pecore e capre, ma non altrettanto interesse hanno avuto gli insuccessi. Da un punto di vista antropologico, invece, i tentativi d’addomesticamento, per diversi motivi poi abbandonati, meritano una particolare riflessione.

I ruminanti sono mammiferi che per la loro alimentazione, non competitiva con quella dell’uomo e d’altre specie monogastriche, e per un comportamento sociale sono ritenute addomesticabili. Tuttavia, delle oltre centocinquanta specie di ruminanti, l’uomo ne ha addomesticate solo alcune e, tra queste, solo alcuni piccoli ruminanti, la pecora e la capra.

Per meglio comprendere il successo della domesticazione delle pecore e capre, vi sono stati tentativi d’addomesticamento d’altri piccoli ruminanti e perché non hanno avuto successo? A tal proposito, la paleolinguistica sta indicando che in Europa vi sono stati tentativi d’addomesticamento del cervo e, con ogni probabilità del capriolo, nel quadro della rivoluzione agropastorale e soprattutto della lattofilia umana e delle prime vetero-biotecnologie applicate al latte.

Le molte vie del latte

Certamente la produzione di latte animale segue la domesticazione degli animali, un processo complesso e non unitario che avviene nel periodo che va dal Mesolitico al Neolitico o durante la transizione del neolitico, fino all’età del rame e del bronzo. Particolarmente importante è il passaggio dal semi-allevamento (caccia con protezione) all’allevamento vero e proprio, vale a dire alla pastorizia, nelle immense aree steppiche o parasteppiche del Vicino Oriente.

Secondo Forni e altri il processo inizia con l’acquisizione, da parte dei cacciatori trasformatisi in pastori, sia del bestiame ovicaprino e bovino in possesso delle popolazioni contadine e sia di nuove specie prima sfruttate ad uno stadio di semidomesticazione (equidi, camelidi e nell’Europa centrale e settentrionale cervidi, forse anche capriolo). Segue l’intensificazione e l’estensione dell’allevamento nelle stesse aree agricole, mediante l’utilizzo delle porzioni di terreno meno adatte alla coltivazione, attraverso una simbiosi tra agricoltori e pastori, con forme e strutture come l’alpeggio e la transumanza. Infine vi è una progressiva intensificazione ed estensione dell’allevamento attraverso il diboscamento praticato con il fuoco, un procedimento in atto fin dal Mesolitico.

La produzione ed utilizzazione del latte quale nutrimento umano rientra in un modello culturale che accomuna molte culture, soprattutto quelle del Vecchio Mondo ed in particolare della Mezzaluna Fertile e del Mediterraneo. Questo modello culturale si collega a come il latte è ottenuto dagli animali. Sembra, infatti, che il termine latte derivi da mirjati, che significa egli accarezza od egli sfrega identificando l’atto della mungitura, oppure dal teutonico melk o melkan che significa mungere.

Si pensa che l’uomo, ma più probabilmente la donna, inizi la domesticazione degli animali da latte attorno agli anni 8000 – 5000 prima della nostra era, in Asia o nell’Africa sudorientale. La testimonianza più antica su questi primi tentativi risale al 3100 a. C. e la troviamo nei reperti degli scavi d’Ur, nel fregio della latteria, oggi conservato a Baghdad. È con Omero e la Bibbia che il latte entra nella storia.

Opinione generale è che il primo latte animale ad entrare nell’alimentazione umana sia quello di capra, seguito da quello di pecora, anche se alcune culture imparano ad usare anche quello di cammella, asina e cavalla, cerva e renna, bufala.

Ogni cultura umana in cui si sviluppa il modello culturale della lattofilia, con ogni probabilità segue una propria via del latte ed in Italia vi è un’antichissima via del latte di ruminanti selvatici di grande e piccola dimensione, dai cervi ai caprioli.

Non è certamente fuori di luogo che il toponimo Italia è stato attribuito, ma senza solide motivazioni, a (v)italia o terra dei vitelli, giovani di ruminanti. È comunque significativo che nell’antica Roma vi è il fico ruminale, presso il lupercale, dove la lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Roma e ruminale sono denominazioni collegate a rumina o rumia, dea dell’allattamento (rumia è la mammella), e dalla stessa parola traggono il loro nome i ruminanti (bovini, pecore e capre) di cui le terre italiche erano ricche.

I bovini sono animali da lavoro, le pecore danno la lana ed un poco di latte e le capre solo latte e, accanto al maiale, animale da carne, entrano nella triade del gran sacrificio romano del suovetaurilia, e cioè di un maiale, una pecora ed un toro.

La via alpina del latte di cerva e di capriolo

I toponimi che contengono l’etimo “b(h)re” – “b(h)ront” sono frequenti sull’arco alpino: dal Brennero alla Val Bregaglia, dal Bregenzer Wald al gruppo del Brenta, da Bressanone a Brentonico, fino a Bronzolo, solo per dare qualche esempio. Un etimo che identifica una precisa relazione con i cervi e che è un importante indizio per la via alpina del latte di cerva.

Nei riguardi dell’etimo “bre” o forse “bri” è indispensabile rifarsi a quanto discusso da Gaetano Forni (1990) per quanto riguarda i cervidi che oggi sono stimati essere i primi grandi ruminanti cacciati e semiaddomesticati in Italia settentrionale, in particolare nelle zone alpine, ovviamente nelle aree prative naturali, ma soprattutto venutesi a creare accidentalmente a seguito d’incendi provocati da fulmini o dall’uomo tramite il fuoco.

Come afferma Maestrelli (1976), la denominazione dei cervidi è apparentata con il tema indoeuropeo b(h)re/ont, diffuso dal Mediterraneo al mar Baltico. A questo proposito, oltre a Brindisi (città del cervo, da brenda, cervo, in Messapico, antico dialetto dell’Italia meridionale) ed all’ampia presenza dei cervi nella civiltà nuragica sarda, come documentato dai numerosi bronzetti, si può citare il norvegese brunde (renna), lo svedese brinde (alce) ed anche l’italiano (b)renna. Senza entrare in dettagli sul rapporto tra l’etimo “bre” e quello del fulmine e, o fuoco (dal greco bronte, al tedesco brand, brennen) utilizzati per avere le radure nelle quali i grandi ruminanti trovavano pascolo, alle radure create dal fuoco si collegano diversi toponimi (il nostro italiano Brenta) e, per sineddoche, termini indicanti contenitori d’acqua od altri liquidi (ad esempio brenta).

Dall’animale ai suoi prodotti il passaggio di denominazione è facile e Alessio (1968) segnala che la denominazione originaria di cervo (bre) è connessa con il nome di formaggi tipo sbrinz (lombardo), brenza (italiano antico), brinza (rumeno), Primsen (tedesco) evidentemente prodotti, all’origine, con latte di cerva. In modo analogo, secondo Alessio, il termine scamorza sarebbe da riferire ad un formaggio prodotto con il latte di camoscio e, o di capriolo, animali affini al cervo.

Come fa notare Forni, sembra ovvio che il termine significante bruciare sia derivato da quello che indica il fulmine, unica fonte d’origine del fuoco. Da bruciare è derivata la denominazione degli animali (in primo luogo il cervo) e delle piante il cui sviluppo era incrementato dalla radurazione col fuoco. Diversi altri autori aggiungono anche che alcuni termini affini, connessi con il significato di cervo (latino Cervus) sono all’origine di denominazioni significanti capra, vacca, ecc. E questo mostra che, almeno in Europa, l’allevamento dei cervidi ha preceduto quello degli ovicaprini e dei bovini.

All’allevamento brado dei cervidi, anche senza arrivare ad una domesticazione vera e propria, si devono porre i primordi di diverse tecniche che vanno dal diboscare al cavalcare e soprattutto al traino. Non dimentichiamo, infatti, l’uso rimasto a lungo delle slitte trainate da cerve e renne, di cui ci rimane anche il ricordo di Babbo Natale. Altrettanto importanti furono, in un lontano passato, le tecniche di conservazione e miglioramento degli alimenti e tra queste quella del prelievo del latte dalle cerve, con la produzione di formaggi, certamente successiva all’uso alimentare della carne di cervo, conservata anche attraverso il sale: da qui l’origine del termine bresaola per indicare la carne di cervo (bre) conservata con il sale (sal).

Senza entrare in nuovi dettagli o ampliamenti, come ad esempio la presenza del cervo nella cultura nuragica sarda, ben documentata dai bronzetti, oppure le tombe di notabili delle steppe asiatiche dei tempi preistorici nelle quali i cavalli sono adornati con simulacri di corna come fossero cervi, da quanto brevemente esposto, a buona ragione è facile concludere che almeno nell’Europa continentale, ma anche nell’Italia peninsulare e forse insulare (Sardegna), prima la carne e in seguito il latte siano stati quelli di cervo e cerva e di piccoli ruminanti selvatici, non solo capra e pecora, ma anche capriolo e camoscio.

Cerva e capriolo da latte, un progetto incompiuto

La produzione del latte è certamente connessa alla domesticazione animale. Non bisogna tuttavia dimenticare che una cosa è avere un animale dal quale prelevare un poco di latte, ed un’altra cosa è avere un animale da latte. Una precisazione questa necessaria anche per poter meglio comprendere, o ipotizzare, perché la via del latte della cerva e, o del capriolo si sia interrotta e non si sia sviluppata come quella d’altri animali ruminanti.

Per la produzione del latte è necessario che il processo di domesticazione sia molto sviluppato e abbia consentito l’attivazione manuale del riflesso d’eiezione del latte nella femmina, con assenza o solo parziale presenza del redo, perché nell’allevamento dell’animale da latte vi è spesso la macellazione precoce del figlio (agnello o capretto, vitello) od il suo svezzamento anticipato. Il prelievo artificiale del latte prolunga oltre il tempo fisiologico la sua produzione e conseguono complicati problemi di pascoli e regolazione del periodo dei parti. Tutto questo è possibile solo quando il processo di domesticazione è già ben stabilito.

La disponibilità di latte pone il problema della sua preservazione e la fermentazione acida consente una conservazione sufficientemente lunga perché, mantenendo il latte in un recipiente di pelle o di legno e rinnovando costantemente la massa coagulata nella misura in cui si consuma il prodotto, si può conservarlo per un’intera stagione. Questo procedimento è stato scoperto circa diecimila anni fa, poco dopo la domesticazione dei piccoli ruminanti (capre, ma anche pecore) nell’area della Mezzaluna Fertile, una scoperta molto probabilmente fatta anche in altri luoghi e con il latte di specie animali diverse. In modo analogo è avvenuto per la coagulazione del latte operata con estratti vegetali (cagli vegetali) o con parti di stomaco di giovani animali lattanti (caglio animale) e per la conservazione tramite salatura dopo la messa in una forma, da cui il termine formaggio.

Se non vi è specie animale allevata per il latte che non sia stata interessata anche alla sua trasformazione (latti acidi e formaggi), oggi si ritiene che nella domesticazione dei grandi ruminanti il cervo abbia avuto un ruolo di grande importanza in tutta l’area europea centrale, in modo analogo a quanto avvenuto per la renna in quella settentrionale. Le stesse aree nella quale oggi riscontriamo popolazioni nelle quali l’intolleranza al lattosio è percentualmente molto bassa. Una coincidenza che non può essere casuale e che ci conforta nel ritenere che il latte di cerva, e probabilmente d’altri ruminanti, anche di piccola taglia, fu utilizzato nell’alimentazione umana in diverse aree italiane.

Riallacciandosi ai dati paleolinguistici, secondo l’analisi di Forni (1990), bisogna quindi ritenere che almeno in Europa, dalla penisola scandinava alla pianura ora occupata dalla Romania fino agli estremi della penisola italiana, in tempi preistorici vi sia stato un allevamento lasso, brado (semiallevamento) originario di popolazioni cervine, senza selezione e quindi senza sfociare in una domesticazione vera e propria in senso genetico (paradomesticazione).

Molto probabilmente questo avviene per l’arrivo dall’Oriente della nuova idea di agricoltura ed allevamento, che può essere applicata anche ai cervidi. Questo quando avviene? Se dobbiamo dare credito alla ricostruzione che si fa della diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento degli animali dal Medio Oriente verso Est e verso Ovest, dobbiamo situare questo periodo dopo il 6250 prima dell’era corrente.

L’importante ruolo del cervo, attestato fin dalla prima antichità si mantiene a lungo e nel periodo romano è naturale ripensare ai carri trainati da cervi ricordati da Marziale ed alle bighe trainate da cervi raffigurate nel fregio degli Amorini, sulle pareti del grande triclinio nella pompeiana casa dei Vettii, poi nel secondo secolo da Pausania, quindi agli scrittori latini della Historia Augusta. Al di fuori della storia romana è significativo che i cervi che trainarono la quadriga dell’imperatore Aureliano, trionfante nel 272 sulla regina di Palmira, Zenobia, provengono da un sovrano goto. Indicazioni di un certo grado di domesticazione del cervo si trovano inoltre in Europa per tutto il medioevo.

Molte fonti, quindi, ci conservano il ricordo di un processo d’addomesticamento del cervo e d’altri piccoli ruminanti selvatici. Avviato dall’antichità, questo processo si è poi interrotto.

Per i piccoli ruminanti, il tentativo d’addomesticamento sembra essersi interrotto molto precocemente, probabilmente con l’arrivo dall’Oriente di pecore e capre già addomesticate. Per il cervo, invece, il suo addomesticamento, giunto ad una fase intermedia nell’Alto Medioevo, non ha saputo procedere ulteriormente, rimanendo quest’animale, al massimo, in stato di semicattività in taluni parchi nobiliari.

Perché ha vinto la pecora

Collegati alle prime fasi dell’allevamento dei piccoli ruminanti, si devono porre i primordi di vetero-tecnologie e vetero-biotecnologie. Oltre a quelle dell’allevamento stesso, del disboscare, vi sono quelle dell’utilizzo del latte, ma anche l’utilizzazione del vello. Una volta acquisita la tecnica di ottenere il latte senza succhiarlo (mungitura), questo nuovo ed insolito alimento ha successo in popolazioni umane nelle quali è accidentalmente comparso il gene della tolleranza al lattosio.

Su quest’indispensabile base, iniziata dalla cultura europea attorno ed attraverso il cervo ed altri ruminanti (renna, capriolo, camoscio ecc.), quando arrivano altri ruminanti, come la pecora e la capra, in una fase d’addomesticamento più avanzato, non hanno difficoltà ad inserirsi e sostituirsi al loro posto. Vi sono tuttavia altri motivi per i quali le pecore e le capre domestiche, provenienti dall’Oriente, facilmente sostituiscono gli animali locali semi-addomesticati.

Dettagliate ricerche d’anatomofisiologia dei ruminanti, e, soprattutto la loro suddivisione in animali prevalentemente mangiatori di fibra o d’erbe stanno chiarendo il successo che le singole specie hanno avuto nei diversi ambienti ed illumina sui motivi del successo o dell’insuccesso.

Anche se in questa sede non è possibile un’analisi dettagliata, è da ritenere che in ambienti limitatamente umanizzati e con scarsa agricoltura, i caprioli possano aver avuto un successo sfruttando un’alimentazione di sottobosco. Con l’avvento di sia pure grossolani sistemi d’agricoltura o di cura dei pascoli, altri ruminanti, come le capre e soprattutto le pecore, risultarono competitivi e sostituiscono i ruminanti che a loro hanno aperto la strada.

Non bisogna inoltre dimenticare che la pecora è portatrice di un bene prezioso, la lana, che manca negli altri ruminanti e negli altri animali selvatici o semi-selvatici, dei quali si può utilizzare soltanto la pelle, con scarso e sottile pelame.

La sostituzione dei ruminanti semi-domestici da parte delle pecore e capre, oltre che dei bovini è stato un insuccesso? Certamente no, se lo si considera un sacrificio a favore di chi ha poi avuto successo.

 

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Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, é stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.