L’articolo recentemente pubblicato su Ruminantia in cui ho affrontato l’argomento del latte commodity e non commodity è stato in fondo solo una premessa per un maggior approfondimento sul tema. L’inevitabile e voluta polemica che è stata stimolata dalla lettura dell’articolo servirà da ulteriore motivazione a considerare come urgente una pianificazione nazionale della produzione agricola e zootecnica. Per arricchire la discussione anche con argomenti “tecnici” è opportuno definire il più esattamente possibile l’identikit delle stalle che hanno scelto, consapevolmente o meno, di produrre latte commodity o quello non commodity.

Fonte: Wikipedia.

Nel “pezzo” precedente spero sia stato sufficientemente chiaro che queste due tipologie di allevamento sono abbastanza differenti e che nessuna delle due potenzialmente prevale sull’altra in termini di redditività attesa per chilogrammo di latte prodotto. A meno che non ci siano posizioni etiche particolari, nelle pianure irrigue italiane è ragionevole produrre principalmente il latte commodity mentre nelle zone interne, o comunque in tutte quelle non irrigue, è oggettivamente difficile adottare questo tipo d’impostazione. Certo è che i due modelli di allevamento che mi appresto a descrivere hanno, allo stato attuale, dei punti di forza e dei punti di debolezza, sia da un punto di vista tecnico che di rapporti con l’opinione pubblica. Per non far scivolare la riflessione in un contesto ideologico è bene comprendere com’è la geografia del nostro paese. Dal grafico a torta riportato di fianco si vede chiaramente come le aree di pianura rappresentino solo il 23.2% della superficie italiana, e non tutte sono irrigue. Si stima che irrigui siano in Italia 3.3 milioni di ettari. L’essere in pianura e in zone irrigue condiziona il costo della terra agricola e la quantità e la qualità di alimenti zootecnici che si possono produrre.

Il non aver correttamente classificato le varie tipologie d’allevamento ha creato grandi contraddizioni e frustrazioni. Troviamo infatti allevamenti da latte commodity in aree interne dove non si ha alcuna disponibilità d’acqua per irrigare ma costruiti come se ce ne fosse. Di converso, ci si auspica una riconversione all’allevamento estensivo nelle pianure irrigue italiane dove la terra ha un valore per ettaro da 10 a 20 volte superiore a quelle delle aree collinari e montane.

Allevamenti bovini da latte commodity

La realizzazione e la gestione di questi allevamenti, presenti in buona parte del mondo e dove si produce la maggior parte del latte bovino, si è ispirata (e ancora lo fa) al modello statunitense, piu’ semplicemente definibile “USA Style“. Un modello perfetto di questo allevamento che ha come caratteristica distintiva quella di seguire molto attentamente e dettagliatamente i dati economici, considerati l’unico criterio per verificare l’efficienza della propria azienda. Chi produce il latte commodity, alla stregua di chi produce le altre commodity agroalimentari come i cereali e le oleaginose, ha un prezzo di cessione del latte molto vicino al punto di pareggio e si “salva”, pertanto, puntando sulle dimensioni e sulla massima efficienza tecnica, che rappresentano le uniche condizioni per la realizzazione delle economie di scala. L’industria del latte sa ovviamente molto bene fin dove si può “tirare la corda”, perché conosce perfettamente il costo di produzione del latte se si lavora mediamente bene. Con questa tipologia di produzione si tiene monitorato il profitto derivante dalla vendita di 1 kg di latte, ma soprattutto il margine operativo dell’intera unità agro-zootecnica costituita da diversi rami d’azienda. Un buon gestore di una stalla che produce latte commodity cerca di massimizzare i ricavi e diminuire i costi dell’intera azienda. In sostanza, in allevamenti di questo tipo l’attenzione massima e “quotidiana” non va prioritariamente rivolta alle performance tecniche ma a quelle economiche. Non esiste una relazione lineare tra ricavo e profitto.

Fino a qualche tempo fa erano molte le imprese dei settori più disparati che utilizzavano per valutarsi e confrontarsi con gli altri il fatturato, i volumi delle produzioni oppure il saldo in banca. Oggi queste informazioni sono utili ma poco funzionali all’ottimizzazione delle performance economiche dell’impresa. Con questa necessaria premessa è evidente che un allevamento che produce latte commodity deve essere ubicato nelle pianure irrigue, in vicinanza dei servizi, e che deve puntare a crescere nelle dimensioni. I limiti alla programmazione e allo svolgimento dell’attività sono dati, oltre che dagli aspetti finanziari, anche dalla legislazione vigente in tema di sicurezza alimentare, dal valore merceologico del latte, dalla sostenibilità ambientale, dal diritto del lavoro e dal benessere animale. In questo modo il latte commodity può competere ad armi pari con qualsiasi unità produttiva nazionale o internazionale che abbia analoga legislazione, aiuti di stato e costi variabili. La genetica, l’ambiente (ossia il tipo di stalla), la nutrizione e la gestione saranno finalizzati alla mission delle stalle che producono latte commodity. Per ottimizzare gli spazi, ovvero aumentare al massimo la produzione di latte per m2 di stalla, l’unica soluzione possibile è quella dell’area di riposo organizzata a cuccette e senza accessi “strutturali” all’esterno. Essendo la produzione media del latte fortemente dipendente dai giorni medi di lattazione e quindi dalla fertilità, o meglio dalla precoce ripresa della gravidanza dopo il parto, in queste stalle si pratica la TAI, e quindi le sincronizzazioni ormonali sistematiche. Tutto il management d’allevamento è organizzato per protocolli standard al fine di non dipendere dall’acume professionale degli addetti di stalla ma solo dallo loro capacità di eseguire nel migliore dei modi le routine come la mungitura, la gestione dei vitelli, gli spostamenti degli animali e la somministrazione degli alimenti. Gli stessi concetti si applicano alla gestione sanitaria degli animali, dove i protocolli sono fondamentali e il ruolo del veterinari è importante anche per decidere il limite della convenienza nel curare gli animali malati e stabilire il fine carriera.

La zootecnia da latte statunitense, cinese, israeliana, di alcuni paesi emergenti e di alcune nazioni europee, presente a macchia di leopardo anche negli altri paesi del mondo, segue questi principi perché facilmente replicabili in quanto estremamente standardizzati. Basta fare anche un solo viaggio in Cina per rendersi conto di cosa significa lo USA Style applicato nella loro realtà d’allevamento. Le stalle dove si produce questo tipo di latte sanno perfettamente e quotidianamente quale è il loro break even e puntano inevitabilmente alla costante riduzione dei costi di produzione. L’azienda agricola nella quale è inserito l’allevamento segue le stesse logiche per la produzione degli alimenti zootecnici e nella gestione dei reflui. Anche per questo ramo d’azienda i limiti sono dettati dalle leggi e dalle norme vigenti.

Il latte commodity non è in grado di fornire particolari claim ad eccezione di quello relativo all’origine, anche se questo in Italia non ha portato a particolari vantaggi economici agli allevatori. Il metodo di valutazione del benessere animale adottato in Italia è estremamente coerente con questa tipologia d’allevamento, come lo è il modo in cui il SSN interpreta e applica le leggi. Ne sono un esempio gli autocatturanti, il layout della vitellaia e l’obbligo di cementare la superficie di riposo nelle compost barn, solo per citarne alcuni. E’ questa tipologia d’allevamenti quella presa di mira dal giornalismo d’inchiesta e dalle associazioni animaliste, anche perché questo modello di stalla è in forte e palese contraddizione con le campagne pubblicitarie di molte industrie lattiero-casearie e Consorzi di Tutela. Abbiamo affrontato recentemente questo argomento nell’articolo “Dedicato a chi si occupa di comunicazione del latte”.

Allevamenti bovini da latte non commodity

Nelle aree non vocate, ossia quelle ubicate non nelle pianure irrigue e lontane dai servizi, non ha alcun senso economico scegliere di produrre latte commodity. A causa dei più alti costi di produzione, legati sia al maggior costo degli alimenti zootecnici e dei servizi che all’impossibilità di fare economie di scala, il costo di produzione del latte (e quindi il break even) è molto più alto rispetto alle pianure irrigue. In questi territori, come abbiamo già detto, il valore dei terreni è molto più basso, per cui può essere conveniente dare più spazio agli animali e fornirgli la possibilità di uscire all’esterno in quei mesi dell’anno in cui è possibile. E’ bene premettere che l’analogia tra stalle che producono latte non commodity e allevamento estensivo non è corretta. Nel nostro paese l’allevamento estensivo delle bovine da latte, ossia il pascolamento per 365 all’anno e la pressochè totale assenza di una stalla, è potenzialmente praticabile solo nelle pianure di alcune regioni del sud-Italia.

Per generare reddito questa tipologia di allevamenti ha l’unica possibilità di ottenere dal chilogrammo di latte il prezzo più alto possibile. Per fare questo deve generare claim che possano essere attraenti per quella fascia di consumatori sensibile ai diritti degli animali d’allevamento, ai temi dell’ambiente e agli aspetti culturali del cibo. I claim generabili sono moltissimi, ma hanno un senso solo se sono valorizzati economicamente da chi compra il latte oppure dal caseificio aziendale. La possibilità di produrre uno storytelling dell’allevamento e la vendita diretta dei prodotti del latte e della carne è di fondamentale importanza per il successo economico degli allevamenti non commodity. Importante è anche che queste aziende siano aperte al pubblico e pertanto visitabili. Sappiamo che la gente, soprattutto quella che vive in un contesto urbano, è molto sensibile ai diritti degli animali, anche se immagina che abbiano le stesse emozioni e pensieri di un essere umano avendo come esperienza quelle dei cani e dei gatti che l’uomo ha selezionato a sua immagine e somiglianza. Pertanto, negli allevamenti non commodity non ci saranno quelle strutture come gli autocatturanti e le cuccette tipiche degli allevamenti commodity, non si allontanerà il vitello dalla madre alla nascita, ci sarà un uso solo terapeutico di antibiotici, ormoni e antiinfiammatori e, visto che gli spazi sono maggiori, ci sarà la possibilità di uscire all’esterno.

Inoltre, questi consumatori cercano nel cibo più esperienze sensoriali ed emotive che altro, e sono molto attenti alla loro salute e a quella dell’ambiente. Un esempio su tutti la crescita interessante del cibo biologico oppure di STG come quella “latte fieno” che comporta un’inevitabile ridotta produzione di latte. In questa tipologia di allevamenti, per mantenere quella distintività che permette di avere un prezzo del latte alla stalla più elevato e stabile di quello del latte commodity, si deve andare “oltre”, e farlo costantemente. Se si è biologici bisogna andare oltre, ossia imporsi delle regole più restrittive di quelle imposte dai regolamenti. Stesso discorso vale per il benessere animale, che negli allevamenti non commodity si chiamerà “tutela dei diritti degli animali di fare una vita dignitosa e il più simile possibile a quella che avrebbe fatto in natura“.

Il punto di equilibrio

Gli estremismi tecnici e culturali non appartengono all’Italian Style, al quale appartiene invece la creatività sia estetica che funzionale. Ovviamente, tra gli allevamenti che producono latte commodity e quelli non commodity esistono degli estremi, che vanno dal mega allevamento stile cinese al microscopico allevamento familiare; tra questi due estremi esistono però tante diverse possibilità. Gli allevamenti commodity, anche se hanno come mission quella di produrre la maggiore quantità possibile di latte al minor costo, devono rivedere alcuni loro aspetti strutturali e organizzativi al fine di essere più vicini al sentiment dell’opinione pubblica. Anche questo tipo di allevamenti può generare claim come quello relativo all’uso razionale dei farmaci (ossia quando sono proprio indispensabili), alla gestione prudente delle risorse idriche, alla sostenibilità (ossia la riduzione della produzione di gas serra, ammoniaca e inquinanti delle acque superficiali) e al bilancio energetico neutro o addirittura positivo. Questi potenziali claim, uniti al fatto che si produce il latte italiano, posso essere esposti sulle confezioni e sulla comunicazione, al fine di rendere il loro latte un po’ meno commodity. Gli allevamenti commodity devono allearsi per avere un peso contrattuale importante quando si tratta il prezzo del latte alla stalla. Succede la stessa cosa quando gli interessi e gli obiettivi della grande industria e delle PMI non necessariamente coincidono. Gli allevamenti che invece producono latte non commodity devono fare delle scelte strutturali e gestionali drastiche, in modo da distinguersi nettamente dalle stalle dove si produce latte commodity. Questo è l’unico modo per avere un profitto unitario derivante da un latte molto diverso da quello che possono ottenere le stalle dove si fa latte commodity.

Molto delicato e complesso è invece trovare un punto di equilibrio tra le stalle organizzate per produrre il latte commodity che viene utilizzato per produrre formaggi a denominazione d’origine, ma questo è un argomento che approfondiremo successivamente.