Carne ovina in Italia

La carne ovina è ottenuta dalla macellazione della pecora domestica e oggi si riferisce non solo a quella della femmina adulta a fine carriera, peraltro di scarso consumo, ma comprende soprattutto quella di agnello da latte o abbacchio, agnellone, castrato e montone. Questo prodotto non ha attualmente in Italia tutta la considerazione che meriterebbe, come dimostrano i circa 2 kg annui consumati dagli italiani, in confronto, ad esempio, ai 12 kg dei greci. Anche sul versante della spesa alimentare degli italiani la carne ovina è del tutto marginale, anche se in alcuni periodi dell’anno, come in quello pasquale, vi sono dei picchi. La spesa mensile media di una famiglia infatti è solo di 2,47 Euro per questo prodotto, in confronto ad una spesa totale dedicata a tutta la carne di 94,17 Euro (Istituto nazionale di statistica 2017).

L’ovinicoltura e la pastorizia Italia sono in prevalenza indirizzate alla produzione di latte destinato alla trasformazione in formaggi, e solo in alcune regioni italiane permane la tradizione di mangiare carne d’agnello nel giorno di Pasqua, mentre la carne di montone non è usuale nella cucina tradizionale italiana come lo era invece nel passato. La carne di pecora, con l’aumentare dell’età dell’animale, tende a divenire meno bianca e più gustosa, anche se alcune persone non ne apprezzano il sapore e l’odore pungente, e come la carne di capra anche quella di pecora giovane, e soprattutto di agnello, può essere più tenera e saporita di quella di manzo. Per la qualità della carne, oltre all’età sono importanti l’alimentazione e il periodo di macellazione; per esempio, il montone macellato alla fine del periodo estivo ha un contenuto in grassi maggiore e un sapore più forte,

Con il diffondersi in Italia di popolazioni che non mangiano il maiale ma soprattutto gli ovini, e con la presenza di cucine etniche specialmente dei paesi di religione islamica dove le carni ovine sono spesso servite insieme al cous cous o servono a preparare kebab, la produzione italiana di questo alimento è diventata largamente insufficiente. Per soddisfare le richieste, il nostro paese effettua infatti massicce importazioni, uguali quasi alla quantità della sua produzione. In questo contesto, è interessante dare uno sguardo all’uso che nel passato si faceva delle carni di pecora, per esempio nel milleseicento a Bologna, città divenuta ora celebre per il maiale e le sue trasformazioni salumiere.

Carne di pecora nella Bologna del milleseicento

L’Economia del Cittadino in villa di Vincenzo Tanara ( … – dopo il 1644), che dopo l’edizione del 1644 ha un grande successo conoscendo altre nove edizioni, è un libro scritto da un marchese bolognese. I temi principali trattati sono l’agricoltura dei campi e della vite, l’allevamento e l’utilità degli animali, e come gli astri celesti influiscano nella vita quotidiana, con il fine di insegnare a chi non conosceva la vita rustica tutti i segreti e tradizioni della cultura contadina emiliana, ma anche della sua cucina. Nel libro terzo de L’Economia del Cittadino in villa viene fatto l’elogio delle carni di pecora e del loro utilizzo in cucina, di cui riportiamo alcune parti nei paragrafi di seguito, adattandone il linguaggio.

Chi si parte dal castrone si parte dalla ragione

In Spagna la maggior delizia è il castrato, qual sopra ogni altra carne è saporitissima, e per pascersi di rosmarino ed altre erbe odorifere è sanissima, sì come in tante altre città d’Italia, e massimamente le montuose, perché la carne di questi è preziosissima sui monti, che tanto succede nel Bolognese, capitandone dei buonissimi verso i Bagni della Porretta. Scrive l’Aldrovandi che sui monti Trevigiani sono squisitissime, ed al contrario quel della pianura di campagna sono vilissime e tutto ciò viene dai pascoli. La carne di questi è da tutti raccomandata per generare ottimo sangue, facilmente si digerisce ed ha la virtù di mantenere in temperamento equilibrato, onde si dice: Chi si parte dal castrone, si parte dalla ragione. La generazione pecorina si mangia in quattro stati: l’agnello da latte, l’agnello grosso prima che conosca la pecora dopo di che diviene ariete, il castrato e la pecora.

Cucina dell’agnello da latte

Nel modo che si cuoce l’agnello, tanto può cuocersi il capretto, sì come ora nelle tavole con equivoco si nomina l’uno per l’altro. Unici tra i quadrupedi, cotti subito dopo morti, sono più teneri e sugosi; più lodato è il maschio che la femmina del capretto. L’uno e l’altro, da latte e che non abbiano i due mesi, il che si vede dallo spuntare delle corna, possono venire cotti arrosto tutti in un pezzo, lardati a piccoli pezzi, allo spiedo, ovvero coperti di strutto e messi al forno, vuoti o pieni d’erbe odorifere come salvia, aglio, rosmarino, petrosello, menta, maggiorana o con un consueto ripieno di ricotta, cacio, uova, uva passa, spezie, uva spina, la stessa coratella tritata e incorporata con ricotta, pane inzuppato e uovo, ovvero uccelletti di poco valore. I tenerissimi si pelano invece di scorticarli, attraverso un piccolo buco del fianco si tolgono le interiora e lo si riempie con uno dei modi suddetti, poi chiuso il buco si cuociono come sopra. Per lo più si dividono a metà, si tagliano sopra i rognoni; la parte anteriore senza la testa si cuoce a lesso o stufata, talvolta anche ripiena ed avvolta nella rete di castrato o carta unta e si arrostisce allo spiedo o su gratella. La parte cotta a lesso e raffreddata, si spezza e si riscalda in padella alla fricassea con qualche saporetto agro ovvero si frigge in padella con cipolla, o con un brodetto (detto spezzato) con brodo giallo, agreste, uva passa, uva spina e petroselli. La parte posteriore, o le due cosce insieme o ciascuna separatamente, si cuoce arrosto, lardellata finemente, ornata di erbe odorifere, involta in rete od in carta, come sopra e si serve calda, in modo che non si abbia bisogno di trinciante ed il convitato prende con le proprie dita le parti tenere di carne nervosa e grassetta, che si mangia con molto gusto. La testa cotta lesso e ripiena si cuoce come per quella di vitello e come questa viene fritta o indorata. Le animelle non si possono cuocere allo spiedo, ma sono cotte come quelle di vitella. Le budella si rivoltano e molto ben lavate e pulite si avvolgono su di un bacchetto, formando una palla in mezzo alla quale si pone un pezzo di coratella, il tutto è legato e cotto arrosto; se ne fa un intingolo con la coratella e se ne fa minestra. I fegatelli, avvolti nella rete, cotti allo spiedo sono rari. Le carni sono buone in primavera ed autunno.

Cucina dell’agnellone e del castrato

L’agnello grosso, cioè quasi di un anno, costumasi in cibo di primavera, più in altre parti che in Bologna. In Roma da Pasqua fino a tutto giugno, in luogo di vaccina si mangia di questi ovini che nell’inverno si sono fatti grassissimi per i verdi e teneri pascoli di quelle campagne. Nel cuocerli si accoppiano al castrato, in quanto l’uno e l’altro si cucinano allo stesso modo. Entrambi gli animali, agnellone e castrato, devono essere grassi, non avere montato, di non oltre un anno perché quando l’animale invecchia la carne assume una qualità fredda e questo succede più presto nel castrato, la cui carne, secondo Ateneo, è sanissima e di buon sapore, per essere di qualità temperatamente calda e umida. Si mangia di primavera e di autunno, d’estate pare abbia un poco di fetore. Il vero modo di cuocere l’agnello di un anno è  l’arrosto in pezzi; la coscia molti giorni dopo la macellazione, tenera e frolla, dopo essere stata battuta viene cotta con acqua bollente, poi con la punta del coltello in più punti si fanno fori profondi, per estrarre con l’acqua bollente ogni mal odore; nei fori si pongono spicchi d’aglio, salvia, rosmarino, cannella, chiodi di garofano. La coscia è arrostita infilata in uno spiedo con sotto una leccarda piena di brodo con cipolle, quando non vi è aglio nella concia, e il cuoco la umetta con tale brodo, in modo che rimanga morbida, tenera, saporita e odorosa; si serve calda con il contenuto della leccarda. Freddo è buono per i viaggi e caccie; scaldato nel burro o midollo è squisito. Larne magra pestata nel mortaio, aggiunta con mandorle e brodo grasso e di nuovo pestata, passata per un colino di rame con aggiunta di un bicchiere di aceto chiaro e spezie, passata al fuoco lento per prendere corpo si mangia con il pane. Con la coscia si fa lesso, stufato, braciole e polpette. La coscia di castrato, in una vivanda detta Bilca, viene cotta allo spiedo e posta nel torchio che ne estrae ogni sostanza umida, come con il capponi. La coda a lesso, il lombo arrosto e le braciole di schiena si fanno arrosto. Nelle spalle vi è la parte più saporita e la punta di spalla in Inghilterra è chiamala la “gioia” e come il collo è cotta lessa e si riempie come quella di vitello con carne magra dello stesso, uva spina, fegatelli, di pollo, il tutto legato con ricotta e uova, avvolta in rete di pecora o di maiale, e poi si cuoce allo spiedo o in gratella. Il fegato si cuoce fritto, i piedi lessati bolliti e disossati, fritti o stufati o in gelatina. I testicoli nello stesso modo delle animelle di vitello.

Cucina della pecora

La carne di pecora non si adopera di ordinario sulle tavole civili, tuttavia in caso di necessità può succedere in Villa. La pecora giovane si cuoce allo stesso modo dell’agnello e del castrato, la pecora vecchia con lunga cottura a lesso o stufata con cipolla, aromi e erbe odorifere, si può cucinare nella stagione fredda. Pare che la carne di pecora uccisa dal lupo resti tenera e priva di odore e come per la capra deve essere molto grassa secondo il detto Tria mala macra, Anser, Mulier, Capra.

 

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie.

Da solo ed in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti ed originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri.

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia ed in particolare all’antropologia alimentare e danche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e 50 libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.