Nel corso della pandemia i mass media hanno più volte affermato che gli allevamenti intensivi sono una fonte primaria di inquinamento, stavolta non per i gas serra, ma per la diffusione di PM10, che in molti hanno correlato all’incidenza di casi da Coronavirus nelle regioni del Nord Italia. Sui social e nelle aree coinvolte, dove questa tipologia di azienda è maggiormente sviluppata, quest’ipotesi ha suscitato grande eco e ampie discussioni.
Occorrono però alcune considerazioni. Il particolato sottile PM10, per la sua natura chimica particolarmente complessa e variabile, è in grado di penetrare nell’apparato respiratorio e creare problemi di salute nell’uomo. Queste particelle emesse in atmosfera direttamente dalle sorgenti, o a seguito di reazioni chimiche con altri inquinanti, possono avere origine naturale o antropica (riscaldamento domestico, traffico veicolare). Il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (ISPRA) certifica che il settore agro-zootecnico è responsabile di emissioni di PM10 in percentuali nettamente calanti negli ultimi anni e meno significative rispetto a quelle di altri comparti (11.8% nel 2018). A seguito delle misure adottate per il contenimento della pandemia, con il blocco pressoché totale di numerose attività, l’ISPRA ha registrato una tendenza alla riduzione delle concentrazioni di inquinanti nell’ordine medio del 30%, attribuibili a diversi fattori (es. riduzione delle emissioni dal settore trasporti, favorevoli condizioni meteorologiche). Le emissioni da attività agro-zootecniche si sono stimate in linea con quelle tipiche del periodo, anche se una preoccupante crescita di polveri sottili è stata registrata alla fine di marzo in alcune province della Pianura Padania. In merito a ciò, l’ISPRA ha chiaramente certificato che queste particelle provenivano dalle correnti atmosferiche originarie dalla zona del Caucaso e Mar Caspio.
Quindi, cosa lega COVID-19, PM10 e zootecnia intensiva?
Allo stato attuale delle conoscenze non è giusto affermare che esista un rapporto diretto tra spandimento delle deiezioni animali, superamenti dei livelli soglia del PM10 e contagi da COVID-19. Senza considerare l’indotto economico tra aziende e dipendenti ad esso legato. In Italia la zootecnia ha visto nel corso dei secoli una riduzione dei capi allevati, durante la quale l’innovazione nelle tecniche di allevamento, di spandimento delle deiezioni e di alimentazione animale, ne hanno sensibilmente aumentato la sostenibilità ambientale. In un delicato momento in cui il Paese è messo a dura prova, non è accettabile mettere in discussione, senza fondamento scientifico, un settore che ha garantito produttività, nonostante le difficoltà evidenti, fornendo cibo a tutti, nel pieno rispetto delle disposizioni sanitarie. È tuttavia molto importante che questo periodo di forzato lockdown abbia fatto riflettere molte persone sull’urgenza di intervenire per la tutela ambientale.
Questo articolo è frutto dell’iniziativa avviata da un gruppo di docenti del Dipartimento di Medicina veterinaria e Produzioni animali dell’Università di Napoli Federico II che ha ideato e realizzato una rubrica intitolata “Un Mondo di Bufale” in cui sono smentiti i falsi miti riguardanti il mondo degli animali, delle produzioni agrozootecniche e degli alimenti.