Anche per le carni il colore rosso è bello

In russo la stessa parola indica il colore rosso e l’aggettivo bello, e fino a poco tempo fa nella pianura padana vi era il detto “un soldo in più, ma deve essere rosso” perché al mercato si era disponibili a pagare di più per una merce di questo colore. Lo stesso valeva, e continua a valere, per le carni dove, accanto alle carni rosse di ruminanti adulti, cavallo e selvaggina, vi sono anche le carni bianche di coniglio, polli, galline e tacchino, rana e la nuova categoria di carni rosee di maiale. Carni rosse, bianche o rosate? Il colore è anche segno della loro qualità nutrizionale se consideriamo che guardando le tabelle tutte le carni (se si prescinde dal loro contenuto di grassi) sembrano equivalersi?

Oggi non si può più sostenere una completa equivalenza nutrizionale delle carni rosse, bianche o rosate perché il colore non è soltanto la conseguenza di fattori genetici di specie e razza, ma anche di vita, di allevamento degli animali e della loro alimentazione, e di conseguenza del valore nutrizionale delle carni. Non è solo il contenuto di ferro che da un punto di vista nutrizionale differenzia le carni rosse dalle bianche, ma è anche il diverso contenuto in Vitamina E ed in carnitina. Questi due ultimi principi sono sempre più importanti per la nutrizione e la salute umana, e avvalorano credenze culturali e l’opinione che le carni rosse siano particolarmente adatte per chi fa attività fisica, pratica gli sport, per giovani in accrescimento e per le donne che allattano.

Carni rosse e carni bianche, antica teoria culturale

I colori hanno sempre avuto importanza nella vita umana: questo vale anche in cucina dove si è formata una teoria che nella Firenze della fine del 1400 trova la sua più completa codificazione di idee antiche quando Marsilio Ficino, nel 1489, pubblica De Vita, dove l’autore tratta dei quattro umori presenti nel corpo umano che danno origine al carattere di persone sanguigne, flemmatiche, melancoliche, colleriche, biliose ecc. Dall’equilibrio degli umori deriverebbe anche un perfetto stato di salute che sarebbe influenzato anche dal tipo d’alimentazione.

Secondo questa teoria degli umori, le carni rosse sono particolarmente adatte per gli uomini che svolgono un’attività fisica, nei quali sviluppa un temperamento sanguigno. Se uno di questi umori, la bile nera o atrabile, aumenta, lo squilibrio che si genera diventa causa di molte malattie che devono essere curate con salassi, depurativi e soprattutto con una dieta in bianco o biancomangiare, che arriva a interessare la cucina e la gastronomia per i successivi cinque secoli. Da qui nasce la distinzione, se non la contrapposizione, tra carni rosse e carni bianche.

Tra le carni del biancomangiare vi sono quelle di uccelli, polli e capponi, capretti e altri piccoli nutriti con il latte della madre. La cottura deve rispettare il colore bianco: è permessa la bollitura e rigorosamente bandita la cottura arrosto e la frittura. Il biancomangiare si diffonde in tutta Europa, in tutte le regge, palazzi, case nobiliari e della buona borghesia, divenendo la cucina degli intellettuali, uomini e donne. Due sono le versioni, una di grasso (polli e altri animali), l’altra di magro (pesce e anche rane). E’ solo dopo cinque secoli che l’ideologia del mangiare in bianco è abbandonata dalla medicina e questa dieta non è più prescritta per una classica malattia degli intellettuali e dei manager, l’ulcera gastrica imputata erroneamente allo stress. Questo avviene quando, riconosciuta un’origine infettiva dell’ulcera gastrica provocata dall’Helicobacter pylori, la malattia è rapidamente guarita con adatti antibiotici.

Colore rosso delle carni e mioglobina

Da dove deriva il colore rosso delle carni? Carne rossa come quella di un manzo allevato allo stato brado o bianca come quella di un vitello di pochi giorni o di un pollo di qualche settimana? Questione complessa che come fondamento principale, ma non esclusivo, non ha il sangue con la sua emoglobina ma la mioglobina del muscolo.

La mioglobina è una proteina che contribuisce a dare il colore rosso al muscolo. Questa proteina contiene ferro che lega reversibilmente l’ossigeno e lo trasporta alla miosina che fa funzionare il muscolo. La differenza tra carni rosse e bianche è dovuta alla diversa quantità di mioglobina, che è alta nei tessuti muscolari di animali che fanno intensa attività fisica. Per questo i buoi e le vacche che lavoravano, il manzo allevato all’aperto, i cavalli e, soprattutto, la selvaggina hanno carni marcatamente rosse: perché i loro muscoli sono sottoposti ad attività intense che necessitano di molto ossigeno e sono quindi ricchi di mioglobina. Le carni del pollo o del coniglio e di animali che fanno poco movimento sono invece bianche per la limitata quantità di mioglobina presente.

Oltre alla genetica di specie e di razza e all’attività attività fisica, anche l’età fa la differenza. La carne di vitello è infatti più chiara rispetto a quella di un bovino adulto. Allo stesso modo vi sono differenze tra le carni delle diverse parti del corpo dell’animale: i muscoli degli arti, sottoposti a movimento e a più sforzo, sono di un rosso più scuro rispetto a quelli che sono quasi sempre fermi.

Negli animali macellati la freschezza è un altro fattore che incide sulla tonalità di colore: al momento della macellazione la carne appare violacea e solo in seguito diviene del colore rosso che riteniamo un sinonimo di freschezza. Nelle carni, maggiore è l’esposizione all’ossigeno e più rosso è il loro colore; per questo le pellicole con sono confezionate per la vendita sono permeabili all’ossigeno, agevolando il mantenimento del colore apprezzato dal consumatore. La carne assume invece un colore tendente al marrone o al grigio quando la mioglobina perde l’ossigeno o non è ossigenata abbastanza, come nel caso della carne sottovuoto. L’ossigeno non è l’unico atomo che si può legare al ferro della mioglobina; infatti, i nitrati usati in salumeria, liberando ossido di azoto che si lega al ferro della mioglobina, conferiscono alla carne un colore rosa più o meno scuro. Altri processi di lavorazione, come la cottura, comportano una trasformazione della colorazione della carne, che a seconda delle temperature varia dal rosso fino al grigio.

Colore della carne e vitamina E

Il colore della carne non ha soltanto un valore estetico ma anche nutrizionale e sanitario. Per questo, superando astratte idee come quelle di Marsilio Ficino, ha stimolato studi che hanno messo in luce come la vitamina E influisce sul colore della carne e soprattutto sulla salute del consumatore.

Una volta le carni bovine erano ben rosse e mantenevano questo colore nel tempo. Questo era dovuto, accanto ad altre condizioni, soprattutto ad un elevato contenuto in vitamina E, derivante da un’alimentazione degli animali che ne era ricca per la sua elevata presenza nelle erbe dei pascoli. Di recente, i ricercatori che si occupano di alimentazione umana hanno visto che con le attuali diete spesso dall’80 al 90% delle persone non coprono il necessario fabbisogno di vitamina E, il più importante antiossidante antagonista naturale dei radicali liberi. Questa carenza espone ai rischi di malattie cardiache e muscolari, precoce invecchiamento e diminuita efficacia del sistema immunitario, con tutte le connesse conseguenze di una minore resistenza alle infezioni e, forse, alla diffusione tumorale. Un buon rifornimento di questa vitamina ha quindi un importante significato non solo nutrizionale, ma anche sanitario.

Pur essendo di origine vegetale, trovandosi ad esempio nei semi germinati, la Vitamina E si concentra negli organi degli animali erbivori e per questo anche la loro carne è un’importante fonte di tale Vitamina per l’uomo. Negli attuali sistemi di allevamento, che per una serie motivi economici, sociali ed etici utilizzano alimenti alternativi che l’uomo non può o non vuole utilizzare, è possibile che gli animali non assumano una quantità di Vitamina E tale da assicurarne una sua elevata presenza nella carne. In questo caso la loro carne diviene meno rossa e a contatto con l’aria si formano radicali liberi, che nell’arco di pochissimi giorni le conferiscono uno sgradevole colore brunastro. Una carne con queste caratteristiche non è per sé dannosa, ma segnala una scarsa quantità di Vitamina E. Una carne ben rossa, che mantiene questo colore e non imbrunisce all’aria, non è soltanto più bella, ma anche migliore e più nutriente per le maggiori quantità di Vitamina E. Questo lo sapeva e lo sanno i nostri allevatori, che con adeguate alimentazioni hanno sempre curato il colore della carne. Per lo stesso motivo macellatori e macellai hanno sempre preferito carni di un bel colore vivo.

Il consumatore ha quindi la possibilità di riconoscere le carni ricche di Vitamina E, di un bel colore rosso che si mantiene nel tempo, da quelle con poca Vitamina E, certamente di minor valore. Avevano quindi ragione le donne che una volta al macellaio, ordinando la carne, dicevano un soldo di più, ma deve essere ben rossa!

Colore della carne e carnitina

La carnitina è un aminoacido che favorisce l’ossidazione degli acidi grassi. Un suo apporto esogeno supplementare con l’alimentazione aumenta l’ossidazione intracellulare degli acidi grassi, con un migliore rendimento energetico soprattutto dei muscoli e del cuore. Per questo motivo, la carnitina è presente delle carni degli animali e non nei vegetali, dove è scarsissima o assente. Le maggiori concentrazioni di carnitina si trovano nelle carni degli animali che fanno movimento, per le caratteristiche di specie e per il sistema di allevamento. Nelle carni di pecore e agnelli che vivono in libertà o di bovini, ad esempio, vi è più carnitina che non nelle carni di conigli e polli che stanno sempre fermi. Per questo maggiori quantità di carnitina sono presenti nelle carni rosse, in relazione anche al tipo di fibre che compongono il muscolo.

L’uomo, soprattutto se la sua alimentazione contiene la Vitamina C, produce buone quantità di carnitina, ma è utile che ne introduca una quota supplementare con l’alimentazione, soprattutto se sta costruendo muscoli (accrescimento corporeo, allenamento e attività atletica) o durante l’ultima fase della gravidanza e l’allattamento, quando la madre passa la carnitina al figlio anche attraverso il latte.

Due sono le forme della carnitina, una destrogira e un’altra levogira, e solo quest’ultima è biologicamente attiva. La quantità consigliate per la supplementazione alimentare di L-carnitina, l’unica efficace, non sono state ben precisate. La dose farmacologica è compresa tra i 10 ed i 100 milligrammi per chilogrammo di peso e per giorno. Le quantità nutrizionali sono stimate nettamente più basse: si ritiene che 1 etto di carne rossa al giorno fornisca da uno a tre milligrammi di carnitina attiva per chilogrammo di peso corporeo, una quantità senz’altro sufficiente per integrare la carnitina endogena.

La carnitina contenuta nelle carni rosse è solo di tipo L. La D-carnitina, è stato dimostrato, non soltanto è inattiva, ma può anche avere un’attività inibitrice della forma attiva (L-carnitina) attraverso un meccanismo di competizione che si esercita anche nei riguardi della carnitina di produzione endogena, sintetizzata dall’organismo grazie all’azione dell’acido ascorbico. Una buona bistecca di carne rossa, soprattutto se magra, non apporta quindi esclusivamente proteine di alta qualità ed oligoelementi biodisponibili (Ferro, Selenio, Zinco ecc.) ma anche l’utilissima L-carnitina, che non si trova nei vegetali e che è molto ridotta nelle uova, latte e nel pane lievitato.

Carni rosse paradosso cancerogeno

Il paradosso è un fatto che contraddice la comune opinione o l’esperienza quotidiana e che deriva da premesse o da un ragionamento apparentemente accettabile. In alimentazione vi sono diversi paradossi, il più noto dei quali è quello francese, per il quale in Francia, nonostante il consumo di alimenti ricchi in acidi grassi saturi, vi è un’incidenza di malattie cardiovascolari inferiore rispetto ad altri paesi con diete comparabili, dandone ragione con l’uso del vino rosso. Tra gli altri paradossi vi è quello della carne rossa cancerogena.

Che la carne rossa sia un cibo buono e appetibile per la maggior parte degli esseri umani che hanno un’alimentazione onnivora è confermato dal fatto che in ogni società i consumi di questo alimento crescono non appena ve ne è la possibilità economica. Nelle società ricche vi è anche una maggiore presenza di taluni tumori e i due fenomeni, attraverso una semplice e superficiale comparazione tra consumi di carne rossa (chilogrammi annui) e numero di tumori al colon-retto (numero per centomila abitanti) sono stati collegati come causa effetto, giungendo alla conclusione che la carne rossa causa i tumori e alla raccomandazione di un uso contenuto di carne, soprattutto se di questa tipologia. Una conclusione di causa e effetto corretta? Allora perché in Italia, Francia e Spagna si mangiano quantità molto diverse di carne, mentre l’incidenza del tumore è quasi la stessa e l’Italia è il paese che ha l’incidenza minore? Un altro misterioso paradosso italiano della carne cancerogena? Niente di tutto questo.

L’alimentazione è un fenomeno molto complesso e deve quindi essere considerata nel suo insieme. Un esame accurato dei dati mostra importanti aspetti, come rilevato da A. R. Vieira e collaboratori (Annals of Oncology 28: 1788–1802, 2017). Sulla base di un elevatissimo numero di studi questi ricercatori dimostrano che è vero che il rischio (non la certezza) di sviluppare un cancro del colon-retto aumenta proporzionalmente al consumo di carni rosse, ma al tempo stesso diminuisce con l’ingestione di cereali integrali e, in misura minore, anche di latticini, concludendo che cereali integrali e latte hanno un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo di questa tipologia di neoplasia, mentre le verdure e il pesce hanno effetti meno convincenti: da qui le diversità nelle popolazioni che hanno stili alimentari differenti. Per questo non c’è nessun mistero nella salute e sicurezza per la carne mangiata assieme al pane, preferibilmente integrale, e alle verdure e frutta in un’alimentazione equilibrata.

Inoltre, come risulta da recenti indagini (Vincenzo Russo, Anna De Angelis, Pier Paolo Danieli – Consumo reale di carne e di pesce in Italia – Franco Angeli, 2017), secondo i dati di consumo di FAO e Ismea, in media, un abitante italiano consuma annualmente 237 grammi al giorno di tutti i tipi di carne, ma il consumo reale pro-capite corrisponde a meno della metà, ovvero 104 grammi al giorno di carne, pari a 38 chilogrammi all’anno, e in questa quantità solo una parte è di carne rossa, ben al di sotto dei quantitativi che potrebbero costituire un rischio.

Carni rosse senza rischi

Dai nostri antenati e dalle specie di ominidi che hanno preceduto la nostra specie abbiamo ereditato la capacità di distinguere gli alimenti di qualità da quelli rischiosi partendo dai loro caratteri visivi e olfattivi. Per questo il colore degli alimenti rappresenta uno degli indici della loro salubrità e qualità, comprese le carni di cui quella più rossa ci sembra più fresca.

Carni di colore rosso, in giuste quantità e nell’ambito di una dieta equilibrata sono importanti per una corretta alimentazione. Bisogna infatti precisare che questo e ogni altro alimento devono entrare nella dieta in giuste quantità, oltre le quali anche le carni rosse da buone, se non necessarie, divengono rischiose. Corretto è quindi associare il concetto di buona carne al colore rosso e che le carni per eccellenza siano quelle rosse, come quelle di bovino, nelle quali il bel colore rosso vivo è un importante indice di freschezza.

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.