Sviluppo umano ed allevamenti

Circa 100.000 anni fa, decennio o millennio più o meno non fa differenza, sulla terra vi sono almeno 3 diverse specie di ominidi e 2 si stanno contendendo il territorio euroasiatico, l’Homo di Cro Magnon e l’Homo di Neanderthal. Queste 2 specie vivono nello stesso ambiente naturale incontaminato, che però non è un paradiso come oggi alcuni si immaginano ma è invece un terreno di aspre e pericolose cacce e difficili raccolte di bacche e radici di limitata, se non scarsa, qualità nutrizionale. Le 2 specie hanno cibo in quantità irregolare che si dimostra insufficiente ad un loro sviluppo, che per questo si mantiene approssimativamente stabile per molti millenni, durante i quali vi sono periodi di carestie, soprattutto di carne. Queste carestie sembrano colpire particolarmente l’uomo di Neanderthal, di maggiori dimensioni e fortemente carnivoro, in misura tale che, almeno questa è una teoria, si sarebbe estinto per denutrizione ed inedia di specie, tanto da cercare di fondersi con l’uomo di Cro Magnon, la nostra specie (un’altra teoria, basata sul nostro patrimonio genetico), che ha una migliore strategia nutrizionale.

Se entrambe le specie di ominidi hanno inventato, e forse si sono scambiate, attrezzi e sistemi di uccisione degli animali e di raccolta di vegetali, solo la nostra fa un salto culturale non più catturando gli animali e raccogliendo vegetali ma producendoli. È solo la nostra specie che inventa l’allevamento, iniziando dai ruminanti di minori dimensioni, e l’agricoltura. Avendo maggiori disponibilità di cibo nei millenni successivi, la nostra specie si sviluppa, perché evidente è il rapporto tra produzione di cibo e sviluppo non solo numerico, ma soprattutto culturale.

Anche di fronte al prevedibile ulteriore sviluppo della popolazione, che potrebbe arrivare ai 10 miliardi d’individui, oggi non manca chi pensa di tornare indietro di circa 10.000 o 15.000 anni, eliminando l’allevamento degli animali, a partire dai ruminanti, con un’alimentazione prevalentemente, se non totalmente, basata su vegetali. Un suicidio come quello che sembra abbia portato alla scomparsa dei Neanderthal, o un progresso come quello che ha assicurato il successo alla nostra specie? Senza voler approfondire questo complesso problema, è sufficiente considerare cosa comporterebbe l’eliminazione dell’allevamento dei ruminanti, la categoria di animali che la nostra specie ha iniziato e continua ad allevare e che è presente in ogni cultura umana preistorica, antica e presente.

Alimenti d’origine animale

Nella seconda metà del Novecento, il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte e si stima che entro il 2050 si arriverà a circa 460 milioni di tonnellate, con un proporzionale aumento degli animali allevati. Unitamente all’aumento della popolazione umana, l’allevamento degli animali è oggi ritenuto un fattore centrale nell’uso di risorse alimentari e idriche, inquinamento delle acque, uso delle terre, deforestazione, degradazione del suolo ed emissioni di gas serra; da qui deriva il crescente interesse della comunità scientifica sull’influenza che il consumo di cibi animali ha sull’ambiente e l’idea che la riduzione del consumo di carne possa considerarsi una necessità ambientale, proponendo l’adozione di diete in diverso grado vegetariane. Questa proposta deve però tenere conto del fatto che i consumi di carne pro capite e per anno sono molto diversificati: di fronte a una media mondiale di circa 40 chilogrammi annui, si va dagli 11 chilogrammi in Africa agli 80 chilogrammi nei paesi sviluppati, con consumi intermedi di 17 chilogrammi nei Paesi in via di sviluppo, 20 chilogrammi in Asia occidentale (compreso il Medio Oriente), 40 chilogrammi in Asia orientale e meridionale, e 53 chilogrammi in America Latina.

In modo analogo, l’aumento dei consumi di carne ed altri alimenti d’origine animale (latte e uova) va crescendo in modo diverso nelle diverse parti del pianeta, e se è stazionario nei paesi industrializzati è in aumento in quelli in via di sviluppo, parallelamente alla crescita economica. Nelle popolazioni in via di sviluppo, una dieta ricca soprattutto di carne è uno status symbol, un segno di prestigio e ricchezza sociale, ed è proprio in questi paesi che nel mondo vi sarà un significativo aumento del numero di animali allevati a fini alimentari. Gli allevamenti non sono solo produttori di alimenti, ma hanno anche una grande importanza economica. Attualmente, in tutto il mondo, gli allevamenti animali impiegano almeno 1 miliardo e 300 milioni di persone e circa 600 milioni delle famiglie più povere del pianeta; quindi, circa di 2 miliardi di persone considerano il bestiame una fonte di reddito essenziale. Inoltre, nella produzione di bestiame è coinvolto il 40% della produzione agricola nei paesi sviluppati ed il 20% di quella nei paesi in via di sviluppo. Il bestiame è anche un’importante fonte di energia: in India infatti due terzi delle aree coltivate del paese sono sfruttate con energia animale e 14 milioni di carri trainati da animali trasportano fino al 15% delle merci.

Nel rapporto tra allevamento animale e consumo di terra bisogna costatare che nei paesi industrializzati, con l’introduzione della genetica, di avanzati sistemi di alimentazione, di controlli sulla salute degli animali e di altre tecnologie, negli ultimi quarant’anni vi è stata una riduzione del fabbisogno di terra complessivo per il bestiame del 20%. Al tempo stesso, vi è stato un raddoppio nella produzione di carne per unità di terreno, con un miglioramento dovuto all’adozione di migliori pratiche e tecnologie in materia di alimentazione, salute, tecniche di allevamento e gestione del letame. Attualmente, un maggiore uso di tecnologie migliorate può aiutare il settore zootecnico mondiale a ridurre le attuali emissioni di gas serra già del 30%.

Allevamenti ed ambiente

L’uomo da sempre convive con gli animali e la nostra specie deve il suo successo e sviluppo anche all’invenzione dell’addomesticamento e dell’allevamento. Gli alimenti d’origine animale, iniziando dalla carne, svolgono un ruolo chiave in una dieta equilibrata e come fonte di nutrienti essenziali difficilmente ottenibili solo dai vegetali o da altre fonti. Anche la FAO (2018) mette in evidenza i numerosi contributi che l’allevamento animale apporta per la vita di milioni di produttori poveri su piccola scala nei paesi in via di sviluppo che dipendono dal bestiame, affermando al tempo stesso che per ottimizzare tali contributi sono necessari cambiamenti nelle politiche e nelle pratiche.

La produzione zootecnica è stata finora prevalentemente individuata come il settore che soddisfa una crescente domanda di alimenti capaci di nutrire una popolazione umana in crescita, oggi è però necessario ridurre il suo impatto ambientale. Per raggiungere questo necessario obiettivo, la FAO ritiene si debba avere un approccio più ampio e ambizioso. Infatti, riorganizzando il settore zootecnico per sostenere meglio l’agenda di sviluppo sostenibile 2030 delle Nazioni Unite, bisogna ottenere una gamma più ampia di benefici, tra i quali il miglioramento della sicurezza alimentare e nutrizionale, da estendersi ad altri ambiti, compreso l’accesso all’energia, alla parità di genere, al miglioramento della gestione ambientale e alla diffusione della pace e della stabilità sociale.

A questo proposito, non bisogna dimenticare che anche le più moderne società post-industriali rimangono dipendenti dall’allevamento del bestiame per la propria sicurezza alimentare e nutrizionale, e che il settore zootecnico ha un’importanza di lungo periodo e svolge un ruolo chiave nel migliorare la vita di milioni di persone fornendo loro cibo, lavoro e reddito, resilienza e opportunità economiche.

Allevamenti e nuove sfide

Lo sviluppo della popolazione umana e l’incremento dei consumi di alimenti d’origine animale porta oggi ad affrontare una serie di interazioni complesse che bisogna conoscere, affrontare e risolvere. Sono tre le sfide principali che si stanno presentando. La superficie di terra coltivabile è, e sarà sempre, più limitata per la progressiva urbanizzazione, senza contare i cambiamenti climatici in atto; bisogna quindi equilibrare la concorrenza tra la terra usata nella produzione di foraggi ed alimenti per gli animali e quella impiegata per produrre cibo per l’uomo (senza contare le produzioni agricole a fini industriali, non ultimi i biocarburanti).

Con l’aumento della popolazione umana, si accresce anche la competitività del settore alimentare attraverso livelli più elevati di concentrazione del mercato mondiale che ostacolano la capacità dei piccoli produttori di parteciparvi. Indifferibile è la necessità di fermare l’uso improprio di antimicrobici nell’allevamento del bestiame per affrontare il sempre più grave problema dell’antibioticoresistenza. Affrontare queste 3 sfide richiederà ai paesi di riesaminare i propri settori nazionali e di sviluppare politiche adeguate alle circostanze locali per promuovere una crescita equa, con misure atte a garantire che anche i produttori su piccola scala siano beneficiari della continua crescita del settore.

Secondo la FAO una sfida chiave per i paesi in via di sviluppo è dovuta al fatto che il settore dell’allevamento è molto segmentato, con livelli nettamente diversi di produttività del lavoro nella trasformazione rispetto alla produzione e, all’interno della produzione, tra gli agricoltori commerciali e quelli di sussistenza. Le politiche settoriali devono quindi riguardare il miglioramento della produttività dei piccoli allevatori e concentrarsi su attività ad alto valore aggiunto e ad alta intensità di manodopera, al fine di sbloccare l’effetto moltiplicatore del settore nella generazione di posti di lavoro e nella riduzione della povertà. In una migliore comprensione della relazione tra crescita economica e riduzione della povertà, sono necessarie misure per migliorare l’accesso dei piccoli agricoltori e dei pastori a risorse produttive, informazioni, tecnologia, formazione, beni e credito, per rafforzare i gruppi di produttori e per riformare commercio, investimenti e innovazione.

Nei paesi industriali sono invece necessarie politiche e pratiche che aumentino l’efficienza del settore zootecnico e riducano l’impatto ambientale, con una più ampia adozione di migliori pratiche e tecnologie esistenti nell’alimentazione e nella salute animale, negli allevamenti e nella gestione del letame. Soprattutto in quest’ultimo campo, le tecnologie attualmente sottoutilizzate, come i generatori di biogas, potrebbero aiutare il settore zootecnico globale a ridurre le emissioni di gas serra addirittura del 30%.

Il bestiame genera più gas serra rispetto ad altre fonti alimentari (circa il 14,5% di tutte le emissioni antropogeniche) e l’espansione degli allevamenti pone sfide alla biodiversità, all’accesso sostenibile all’acqua e, in particolare, agli obiettivi dell’Accordo di Parigi di limitare l’aumento delle temperature medie globali. Con le attuali conoscenze è possibile sviluppare un settore zootecnico a basse emissioni di carbonio adottando pratiche di allevamento note come il pascolo rigenerativo, la selezione del foraggio ed il migliore riciclo di sostanze nutritive ed energia dai rifiuti animali. Una migliore gestione dei pascoli e della loro capacità di immagazzinare il carbonio, migliorando la salute dei terreni, è essenziale per aumentare la produzione zootecnica e non aver bisogno di ulteriori deforestazioni. Con pratiche migliori e rispettose del clima, possiamo rapidamente creare catene di approvvigionamento di bestiame più sostenibili e più verdi.

Ruminanti, animali mondiali

I ruminanti sono spesso ingiustamente criminalizzati di rubare cibo all’uomo e di inquinare, dimenticando come sono allevati dalle diverse culture umane, in molte delle quali sono determinanti per una loro sussistenza. Ad Aisha, una donna del Niger, paese di povertà e fame – come racconta Martin Caparròs nel libro La Fame (Einaudi, 2016) – è chiesto cosa vorrebbe avere e questa risponde: “Una vacca. Anzi due vacche: con una ci sfameremmo noi, con l’altra produrrei cose da vendere e non avrei fame mai più”. Una risposta a prima vista stupefacente perché spesso le vacche, come altri ruminanti, sono accusate di essere animali inquinanti, con produzioni di carne e latte tra le meno efficienti, e di rubare cibo all’uomo, divenendo una delle cause della fame mondiale.

Chi ha ragione? La donna del Niger che vuole 2 vacche per combattere la sua fame o gli ambientalisti ed ecologisti dei paesi industrializzati che accusano l’allevamento bovino della fame del mondo? Tutti hanno ragione, e prima di criminalizzarli bisogna considerare come questi animali sono allevati e alimentati.

Le vacche sono ruminanti. Questi animali sono tra le specie tra le più numerose (circa 170) nelle circa 5.000 specie di mammiferi e si sono diffusi in ogni ambiente. Varie specie di ruminanti di grande e piccola taglia sono state addomesticate ed adottate da tutte le grandi culture antiche e soprattutto dalle popolazioni più povere, divenendo anche determinanti per la loro sussistenza.

Animali che ruminano sono le renne delle tundre del più freddo e desolato settentrione e i cammelli ed i dromedari dei deserti assolati ed aridi; le pecore e le capre dei magri pascoli alpini e le bufale delle pianure acquitrinose e delle risaie asiatiche; i bovini da lavoro del vecchio mondo, i lama, alpaca, vigogna e guanaco degli alti pianori delle Ande del Nuovo Mondo ed i bisonti che davano cibo agli indiani delle pianure americane.

Tutti questi ruminanti sono divenuti la condizione indispensabile della sopravvivenza umana anche in ambienti estremi. Non è un caso che quando gli invasori del continente americano vollero sterminare gli indiani, Bufalo Bill lo fece distruggendo il loro patrimonio di bisonti, impropriamente denominati bufali. In tutto il mondo, i bovini domestici sono un milione e trecentomila; due miliardi e settecentomila sono invece gli ovini e caprini, senza contare i bufali, i camelidi e le renne. Circa un quarto della superficie terrestre è occupato, direttamente o indirettamente, da bovini che producono latte e carne, con una superficie che riguarda per il 43% l’America, per il 17% l’Europa occidentale e per il 18% la Russia.

Ruminanti con una nutrizione particolare

Il motivo del singolare successo dei ruminanti risiede nel fatto che questi animali possono nutrirsi di quello che l’uomo non può mangiare. Non sono quindi competitivi, ma complementari alla società umana. Distinguendo tra alimentazione (ciò che è mangiato) e nutrizione (ciò che è assorbito ed usato come nutrimento) bisogna precisare che gli animali che ruminano non si nutrono di ciò che mangiano, ma di quello che è prodotto dalle fermentazioni microbiche che si compiono nei loro prestomaci, dove in un ambiente anaerobio vive una straordinaria popolazione di batteri, miceti e protozoi che elabora e trasforma quanto mangiato dall’animale.

L’alimento ingerito dal ruminante, per la maggior parte costituto da cellulosa, amido, sostanze pectiche, emicellulosa, disaccaridi e zuccheri semplici, ma anche azoto inorganico (urea e acido urico) e minerali, nel complesso reti-colo-ruminale subisce complesse fermentazioni che portano alla produzione di acidi grassi volatili ricchi di energia e di proteine. Ad esempio, nel rumine di un grosso ruminante è prodotto giornalmente fino a quasi 1 Kg di proteina batterica e protozoaria di buona qualità, oltre a molecole strategiche, come le vitamine B, che sono assimilate come nutrimento dall’animale, direttamente o previa digestione intestinale.

Le fermentazioni sono operate da 3 gruppi di microrganismi (batteri, protozoi e muffe) ed a metà del ventesimo secolo hanno permesso al Premio Nobel il finlandese Artturi Virtanen di mantenere 3 generazioni di vacche, con una produzione di circa 10 litri di latte, alimentandole esclusivamente con la carta di elenchi telefonici, urea e sali minerali, un’alimentazione assolutamente non competitiva con quella umana o di animali non ruminanti.

La flora microbiologica del rumine deriva dall’ambiente, soprattutto da quello presente nello strato vivo del terreno (l’humus) e che l’animale assume attraverso le erbe ed i foraggi. Questa origine spiega come nell’ambiente strettamente anaerobio dei prestomaci dei ruminanti si trovino anche batteri capaci di fissare l’azoto inorganico, come quello della urea o dell’acido urico, e anche atmosferico, in modo analogo a quanto avviene nei suoli e soprattutto in quelli nei quali crescono le leguminose. Da queste fermentazioni si producono anche deiezioni che costituiscono un ottimo concime, altro motivo che contribuisce a spiegare il successo di questi animali che, se ben condotti, sono capaci di migliorare anche i pascoli arricchendoli di azoto. Dalle fermentazioni pregastriche dei ruminanti originano anche gas, soprattutto anidride carbonica, metano e idrogeno molecolare, che sono eruttati. Per questo, in un giorno, un bovino di grande taglia può arrivare a produrne 600 o anche 1.000 litri.

Ruminanti ed efficienza alimentare

Una critica spesso rivolta ai ruminanti quali produttori di carne e di latte è che hanno una scarsa capacità di trasformazione alimentare, espressa come ICA (Indice di Conversione Alimentare). In parole povere, si dice che se oggi per produrre un 1 Kg di carne un pollo ha bisogno di circa 2 Kg di mangime ed il maiale di circa 3 Kg, mentre il bovino ne ha bisogno in quantità maggiore, cioè da 5 a 10 Kg.

Il motivo di questa scarsa efficienza dei ruminanti sta nelle fermentazioni ruminali, ma è un’efficienza solo apparentemente bassa, perché non si tiene conto della qualità dell’alimento ingerito e soprattutto del suo grado di competizione con l’alimentazione umana. Nelle condizioni in cui operava il Premio Nobel Virtanen, ad esempio, e dove si può ritenere vi fosse un ICA di circa 10, la scarsa efficienza è ampiamente compensata da una totale creazione di nuovo cibo per l’uomo, che non si può nutrire di carta e di urea! Una condizione di cui, sia pure inconsciamente, si sono rese conto tutte le popolazioni antiche quando hanno adottato e addomesticato i ruminanti e che ancor oggi è nota alle donne del Niger, come Aisha.

Ruminanti di successo ambientale

Un altro elemento del successo dei ruminanti risiede nel loro differente modo di alimentarsi, che permette un completo utilizzo del territorio. Nei climi temperati i grossi ruminanti come i bovini si nutrono per primi falciando con la lingua le erbe delle praterie o dei pascoli, senza arrivare raso terra; arrivano poi le pecore che brucano quanto ancora spunta dal terreno, mentre le capre si alimentano con le foglie e i virgulti trascurati dai precedenti animali. Nei climi freddi, le renne mangiano prevalentemente licheni, foglie e funghi, anche velenosi per altri animali e l’uomo, mentre nei climi caldi e aridi i camelidi si alimentano di arbusti secchi, piante coriacee e salate, immangiabili per altri animali.

Complementari sono le produzioni dei ruminanti e mentre i bovini un tempo fornivano prevalentemente lavoro ed ora carne e latte, le pecore danno lana e un poco di latte, mentre le capre producono latte e un poco di carne. Lo stesso vale per gli altri ruminanti: le bufale danno lavoro nelle risaie e un poco di latte, i camelidi servono per i trasporti e danno latte, mentre lavoro di soma e lana di pregio sono fornite dei ruminanti andini. Per tutte queste caratteristiche i romani giudicavano l’allevamento dei ruminanti al pascolo (pascere) il sistema più redditizio d’utilizzo di un territorio, ben più dell’agricoltura.

É Marco Tullio Cicerone che riferisce come Catone il Vecchio, quando gli fu chiesto quale fosse il miglior modo di amministrare i beni familiari, rispondesse “bene pascere”, per mettere in seconda posizione il pascolare abbastanza bene e in terza il cattivo pascolare, ponendo solo in quarta e ultima posizione di redditività l’“arare” e cioè il coltivare la terra. Un giudizio analogo a quello della donna del Niger!

Ruminanti riciclatori alimentari

Oggi nel mondo i sistemi di alimentazione dei ruminanti sono molto diversi. Per i bovini, se in America meridionale prevale un’alimentazione al pascolo, in quella settentrionale e in parte dell’Europa prevale un’alimentazione intensiva, con l’uso di cereali (soprattutto mais) e leguminose (in prevalenza soia), e quindi competitiva con la nutrizione umana. I ruminanti, e tra questi i bovini, sono un allevamento sostenibile? Dipende dal modo nel quale sono mantenuti e soprattutto alimentati. Indubbiamente, e tutta la loro storia lo dimostra, i ruminanti domestici sono un allevamento sostenibile se alimentati con quanto non utilizzabile dall’uomo, ma cessano di esserlo quando, in diversa misura, sono alimentati con cereali o leguminose che l’uomo può usare per la sua nutrizione.

Un fenomeno analogo all’uso dei cereali per la produzione dell’alcole che diviene benzina verde o della soia il cui olio è trasformato in biodiesel. Sullo stesso piano, e conseguenza di periodi di grandi disponibilità alimentari, sono da considerare le tecniche che sviluppate per trasformare (almeno in parte) i ruminanti in non ruminanti, come l’anormale prolungamento della vita dei vitelli con un’alimentazione non ruminale, o le alimentazioni dei ruminanti con cibi trattati in modo da superare le fermentazioni ruminali. Alimentare un ruminante con quanto può essere usato come nutrimento umano, se non un controsenso, è almeno uno spreco che già oggi, ma soprattutto nel futuro, dovrà essere limitato, se non abolito, mantenendo i ruminanti con un’alimentazione fermentativa che soprattutto permetta il riuso o riciclo di alimenti non utilizzabili per l’uomo, e di cui le vacche de Premio Nobel Virtanen sono un bell’esempio dando ragione alla donna del Niger di nome Aisha.

Ruminanti e sostenibilità ambientale

La sostenibilità ambientale degli allevamenti di ruminanti va correlata alle condizioni ambientali, non dimenticando la capacità che questi animali hanno di migliorare le caratteristiche dei terreni e le loro capacità trofiche. Se queste caratteristiche sono utili in terreni poveri, è ovvio che se sono applicate a terreni di per sé ricchi, o interessano troppo intensamente terreni ricchi di acque, inevitabile è una loro eutrofizzazione, troppo sbrigativamente accusata d’inquinamento, ma solo dovuta a un’intensificazione e concentrazione degli allevamenti non adatti al territorio. Altri gli errori di valutazione e comunicazione, non di rado chiaramente strumentali, si compiono per esempio quando si dice che per produrre un chilogrammo di carne bovina si “consumano” tot litri di acqua. Basta pensare ad un allevamento sud americano e considerare l’acqua che piove e irriga la prateria: che vi siano o no bovini al pascolo è assolutamente ininfluente su un ipotizzato “consumo” d’acqua! Anche quando si dice che i bovini inquinano l’aria producendo gas serra non si tiene conto del fatto che, se sul terreno non vi fossero questi animali, i vegetali che arrivano spontaneamente a fine ciclo produrrebbero spontaneamente gas analoghi, e che questi sono prodotti anche dalle termiti che degradano le cellulose. Tutte accuse che non riguardano tanto i ruminanti in generale, o i bovini in particolare, quanto le modalità con cui la nostra civiltà industriale e tecnologica impiega questi animali.

Futuro dei ruminanti

In un recente passato abbiamo ottenuto molte preziose conoscenze sui ruminanti, dimenticando però diverse preziose norme di un loro impiego, ben note nel passato e che erano state raccolte e conservate nelle tradizioni ancora oggi presenti in molte popolazioni umane che ingiustamente riteniamo primitive, come quelle di Aisha del Niger. Una saggia unione delle moderne conoscenze con i saperi tradizionali permette di concludere che come i ruminanti hanno convissuto con la nostra specie fin dalla scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento, continueranno a farlo anche nel futuro.

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.