Come un “fulmine a ciel sereno” è arrivata a Novembre (2019) la notizia che la texana Dean Food, la più grande industria lattiero-casearia statunitense, ha presentato istanza di fallimento in modo da potere continuare a lavorare mentre organizza i suoi debiti. Il colosso americano è la più grande azienda di trasformazione e distribuzione del latte negli USA, opera con 50 marchi ed ha 15.000 dipendenti.

Dopo non molto tempo, cioè a Gennaio 2020, è arrivata la notizia che anche Borden Dairy, industria del latte statunitense da 1.18 miliardi di dollari di fatturato e seconda come dimensione solo a Dean Food, ha deciso di ricorrere al capitolo 11 del codice fallimentare per eccessivo indebitamento.

Questo domino di eventi che ha colpito i giganti del latte USA ci ha francamente colto di sorpresa e messo in ansia, ma non meravigliato.

Jason Monaco, direttore finanziario della Borden Dairy, ha descritto un ambiente difficile per i produttori di latte, anche a causa della diminuzione della domanda per questo alimento e dell’aumento dei consumi delle alternative vegetali al latte vaccino.

Dal 1975 ad oggi il consumo pro-capite dei prodotti del latte negli USA è calato del 40%, passando da 113 a 66 kg all’anno.

Il calo dei consumi del prodotti del latte in Europa, ormai è in atto da tempo ed ha precise motivazioni salutistiche e di preoccupazione dei consumatori per l’ambiente e il benessere degli animali.

Il pragmatismo dei consumatori americani e il ritenere relativamente facile condizionare le loro scelte d’acquisto tramite la pubblicità ha probabilmente portato l’industria lattiero-casearia statunitense a sottovalutare la crescente sensibilità dei consumatori per i temi di sostenibilità e benessere animale. Basti pensare che negli USA, negli allevamenti di bovine da latte, è ancora ammesso l’uso dei promotori di crescita e di alcuni ormoni, oltre alla possibilità di utilizzare ancora proteine di origine animale.

La capacità di “ascoltare” i consumatori da parte dell’industria del latte europea è sicuramente molto più alta rispetto a quella degli USA, anche se dai dati dei consumi dei prodotti del latte non sembrerebbe che ci sia la sintonia dovuta.

L’Europa, ed in particolare il nostro paese, dovrebbe fare dei decisi e coraggiosi passi in avanti nel capire perché a molta gente, anche non allergica alle proteine o intollerante al lattosio, il latte fa genericamente male. Dovrebbe avviare un dialogo costruttivo e non ideologico per capire se il togliere latte e derivati ai pazienti oncologici da parte dei medici abbia un senso da un punto di vista scientifico e se sia supportato da evidenze, per verificare la fondatezza dell’atteggiamento dei pediatri che sconsigliano l’uso dei prodotti del latte vaccino ai bambini e per capire bene le ragioni dei nutrizionisti che vedono nel latte e nei formaggi prodotti nocivi per la “linea” e per la salute anche degli adulti e degli anziani.

Bisognerebbe evitare di costruire nuove stalle che, per come sono concepite, si è quasi certi che non aiuteranno a ridurre all’indispensabile l’uso di antibiotici e ormoni e dove è impossibile ridurre la produzione dei gas serra.

Gli USA hanno probabilmente sottovalutato il fatto che i consumatori, attraverso i loro acquisti, possono condizionare l’agenda delle industrie. Cerchiamo almeno noi italiani di fare tesoro di questa brutta vicenda americana non continuando a reiterare sempre gli stessi errori.