Quello che, da circa due settimane, sta accadendo in Sardegna, ci riporta indietro nel tempo a quando, negli anni 1933-1934 gli allevatori del Wisconsin decisero di ribellarsi in seguito al ribasso del prezzo del latte, con un’inusuale forma di protesta definita come “milk strikes” o “sciopero del latte”. I promotori dell’iniziativa insorsero contro le industrie casearie con azioni che avevano come fine ultimo quello di indignare l’opinione pubblica e creare disordine sversando il latte a terra, scaricando i camion in strada e bloccando le principali vie di comunicazione. Quello che sembra un inspiegato senso di familiarità con quanto vissuto in passato e che verrebbe definito dai francesi come un déjà vu, in realtà un senso lo trova; se è vero che “il lavoro nobilita l’uomo”, la spiegazione di tale forma di repulsione, nei limiti in cui la stessa si esterni in via del tutto pacifica, sta nella volontà di ciascun essere umano di perseguire i propri obiettivi e ideali, oltre che nel riscatto della propria dignità.
Figura 1. (a sinistra: Wisconsin, 10 Gennaio 1934, autore sconosciuto; a destra: Sardegna, Febbraio 2019)
Nonostante sia considerato come la prima fonte di nutrimento nei mammiferi e sia legato inscindibilmente con la maternità, il latte, da lungo tempo, genera conflitto in terra sarda. L’ultimo ha preso piede circa due settimane fa, a causa del ribasso del prezzo del latte (0.60 €/litro). Questo dissidio può essere considerato come la prima forma di ribellione collettiva, senza precedenti, ed ha avuto impulso da un allevatore del sud Sardegna che, afflitto dall’ennesimo collasso del sistema, ha deciso di svuotare il refrigeratore del latte sversandolo a terra condividendo l’azione sui social. Di lì a poco, la protesta si è diffusa sull’intero territorio regionale inducendo migliaia di allevatori a sversare il loro latte lungo l’arteria principale della Sardegna e a presidiare i caseifici, ostacolando ogni minimo tentativo di lavorazione.
Sono in tanti a chiedersi quali siano le ragioni della protesta che ha attratto migliaia di reporter nazionali e internazionali, che ancora oggi esaminano il caso. Le ragioni sono molteplici e hanno radici profonde, ben ancorate al passato. Dagli anni ’70 ad oggi, le aziende ovine sono state completamente riformate, con greggi più consistenti in cui sono state migliorate le produzioni dal punto di vista quanti-qualitativo, si sono verificati miglioramenti fondiari e l’installazione di impianti di mungitura, fino ad arrivare allo stato attuale, in cui la Sardegna si fregia del titolo di detentore del 45% del patrimonio ovino nazionale (n. capi) e produce quasi il 66% del latte ovino nazionale. Lo stesso viene interamente trasformato e va a finire nelle tavole di consumatori attraverso le 3 DOP (Pecorino Romano, Pecorino Sardo e Fiore Sardo) e formaggi e prodotti lattiero-caseari vari non DOP.
Le industrie di trasformazione sono rappresentate da cooperative e industrie private che trasformano il 60% del latte ovino in Pecorino Romano, prodotto immesso prevalentemente sui mercati esteri, americano soprattutto. Su questo tipo di formaggio è insorto l’intero mondo delle campagne a causa delle continue oscillazioni del suo prezzo di mercato, che si ripercuotono negativamente sul prezzo del latte. Quest’ultimo, infatti, è fissato esclusivamente in funzione delle vendite e del valore del Pecorino Romano e non tiene conto della quota di ricavi che si crea dalla vendita degli altri formaggi DOP e di quelli non immessi sul mercato.
Resta da chiedersi: “Perché fissare il prezzo del latte esclusivamente in funzione della vendita di un solo formaggio?”. E soprattutto: “Perché stabilirlo in funzione di una prevista quantità di formaggio non ancora presente in magazzino e che si auspica di produrre e immettere sul mercato dopo un anno?”. Questa fondamentalmente è una delle “gocce di latte” che ha fatto traboccare il vaso e che per tanti anni ha dirottato gli utili verso pochi e non sull’intera filiera, portandola al collasso.
Se in passato, la produzione di Pecorino Romano era limitata al periodo primaverile per smaltire il surplus di latte, oggi è invece estesa a tutta la stagione di trasformazione, portando a conseguenze come eccedenze di produzione e difficoltà di introdurre il prodotto sul mercato. Il 65% del Pecorino Romano è prodotto dalle cooperative che lo vendono, o svendono, interamente alle industrie casearie private o ai grossisti. Pertanto, l’idea che si è diffusa, secondo la quale gli artefici del collasso del sistema sarebbero le industrie casearie private, non è del tutto corretta, in quanto anche le cooperative hanno dato il loro contributo. Esse, infatti, trasformano i 2/3 del latte ovino prodotto in Sardegna, seguendo le logiche dell’abbondanza più che della prudenza. D’altronde, come sosteneva Arturo Graf “se non ci fossero tante pecore, non ci sarebbero tanti lupi”.
Un’altra nota dolente è legata alla catena di produzione, finora dipendente dalla tradizione e meno dal gusto dei consumatori. In un mercato ideale le scelte di produzione devono essere guidate dal gusto dei consumatori, e allora perché non portare sulla tavola dell’utente finale più prodotti freschi (yogurt, burro, gelati, spalmabili, formaggi freschi vari) meno legati alla stagionalità delle vendite, e quindi non suscettibili ad oscillazioni dal momento che vengono commercializzati nell’immediato? Ancora, perché non estendere le vendite ai mercati asiatici, presentando un prodotto diverso, che si sposi bene con le loro esigenze, quale il latte in polvere? Gli sbocchi potrebbero essere tanti, ma non spetta a noi definirli bensì ad esperti di marketing che siano in grado di identificare i mercati entro i quali collocare i prodotti e di rispondere alle richieste dei consumatori.
Gli altri punti deboli sono da ricercarsi all’interno dei Consorzi di Tutela delle tre DOP il cui fine ultimo consiste, secondo la normativa vigente, nel tutelare e vigilare sulla produzione e commercializzazione dei tre pecorini, investigare sul miglioramento qualitativo del prodotto, e tutelare la denominazione in Italia e all’Estero. Di fatto però le informazioni rinvenibili dalle operazioni di vigilanza del prodotto sono poco trasparenti, soprattutto in termini di quantità di latte che viene trasformato e di prodotto finito che viene introdotto sul mercato, indicazioni di fondamentale importanza nel guidare le scelte future e, indi, nel fare programmazione.
Tutto ciò per far capire ai lettori che “volere è potere” e un clima di cattiva informazione e disinformazione non giova nel perseguimento degli obiettivi prefissati e nella ricerca delle soluzioni. Dall’analisi dei dati pubblicati sui siti Eurostat e Faostat, è palesemente osservabile l’assenza di uno stato di recessione tra i più grandi produttori di latte ovino a livello Europeo, anche in considerazione del fatto che la domanda di latte ovino a livello mondiale è in continua crescita (FAOSTAT 2018; Pulina et al., 2018). All’interno dell’Unione Europea, l’Italia si colloca al quarto posto per produzione di latte ovino, dopo Grecia, Romania e Spagna. Nel caso specifico della Grecia (leader a livello Europeo nella produzione di latte) che versa in una situazione economica ben più drammatica di quella italiana, il comparto ovino è piuttosto forte. Il prezzo del latte ovino infatti è piuttosto stabile e dal 2008 al 2017 si è attestato su valori medi pari a 0.95 €/litro. All’interno delle singole regioni greche, nel 2018 il prezzo medio del latte ovino è stato di 0.86 €/litro. In sintesi, la Grecia è: a) il leader Europeo nella produzione di latte ovino; b) ha una consistenza di capi ovini da latte superiore a quella italiana (6.464.000 vs. 5.033.000 capi; Fonte Eurostat 2018); c) produce in gran parte formaggi freschi che immette nell’immediato sul mercato, evitando di fissare il prezzo del latte in funzione di una “prevista quantità di merce” non ancora esistente che verrà immessa sul mercato presumibilmente dopo 12 mesi, come accade in Sardegna. Pertanto, resta da chiedersi: “Dov’è il paradosso?”. Indubbiamente, affiora l’idea che in assenza di una crisi del comparto ovino mondiale, come si evince dai dati, in Sardegna il problema sia legato fondamentalmente all’assenza di regole di commercializzazione e alla mancata cooperazione fra le parti.
Sicuramente si rende più decisiva l’idea di riformare completamente il settore attraverso: a) l’unione delle cooperative che avranno il dovere di cooperare al fine di essere più competitive nei confronti delle industrie casearie; b) dalla cooperazione dovranno nascere prodotti ben identificati riportanti un’unica etichetta; c) il prezzo del latte dovrà essere dipendente dalla produzione di tutti i prodotti lattiero-caseari ovini (DOP e non) immessi sul mercato; d) uno dei punti di forza sarà determinato dalla diversificazione dei prodotti che dovranno essere meno legati alla tradizione e più dipendenti dai gusti dei consumatori; e) per ultimo, ma non per importanza, sarà fondamentale introdurre nel sistema personale qualificato in grado di riformare l’intera filiera, gestire le aziende di trasformazione e i consorzi di tutela e difendere al meglio i produttori primari.
Intanto, in occasione del tavolo di filiera “Vertenza Latte”, tenutosi a Cagliari lo scorso 16 Febbraio, a cui hanno partecipato il Ministro Gian Marco Centinaio, il Presidente della Regione Sardegna Francesco Pigliaru, allevatori e membri delle cooperative e industrie casearie, è stato elaborato un documento in cui si stabiliva un prezzo del latte pari a 0.72 €/litro, iva inclusa, per i mesi di febbraio, marzo e aprile, valutazioni di filiera nei mesi di maggio ed ottobre e conguaglio dal ottobre 2018 a ottobre 2019. Giovedì 21 Febbraio, in occasione di quello che doveva essere l’ultimo tavolo di trattative, gli allevatori hanno proposto alcune integrazioni al documento elaborato nel tavolo di filiera “Vertenza Latte”. Essi, in sostanza, hanno chiesto che venga attuata una maggiore programmazione al fine di supportare l’intera filiera e ridurre le oscillazioni del prezzo del latte osservate negli ultimi dieci anni. E’ stato inoltre richiesto un prezzo del latte equo al fine di coprire i costi di produzione, ovvero pari a 0.80 €/litro. Hanno chiesto altresì, un’indagine sul costo di produzione da utilizzare come indicatore per fissare una soglia minima di prezzo del latte, la quale dovrà dipendere dalla produzione di tutti i formaggi ovini, DOP e non, immessi sul mercato. Tra le altre richieste, chiedono che vengano sciolti i Consorzi di Tutela dei 3 pecorini DOP a causa della loro incapacità di tutelare e vigilare sulla produzione e sul prodotto finito e della scarsa trasparenza.
Nella speranza che la situazione si risolva nel più breve tempo possibile, ci auspichiamo che gli allevatori della Sardegna riconquistino la loro dignità e serenità, ma soprattutto che ritrovino la volontà di innovare ed essere sempre più competitivi nei confronti di un mondo ogni giorno più esigente e dipendente da un lavoro che ha da sempre richiesto sacrificio e devozione. Grazie a loro, si è creato un comparto ovino che per noi rappresenta una fonte di stimoli nel campo della ricerca scientifica ma che lo è anche per i numerosi giovani che scelgono di investire il loro futuro in agricoltura.
Autori: Mondina Lunesu e Antonello Ledda, Sezione di Scienze Zootecniche, Dipartimento di Agraria, Università degli Studi di Sassari.