Negli ultimi anni abbiamo sentito sempre più parlare di sostenibilità sociale, ambientale, economica, nonché etica e morale, dei sistemi produttivi che l’uomo utilizza per le proprie attività, come quella zootecnica. Ne sono prova i recenti bandi di finanziamento per l’attività di selezione e conservazione in Italia, identificati come bandi “PSRN – Biodiversità” per la sottomisura 10.2, destinati alle ANA, ora chiamate anche Enti Selezionatori. I criteri di valutazione per questi bandi, emessi dal MIPAAF, non riguardano solo adeguatezza e qualità delle proposte, modalità e metodologie applicate, e competenze delle strutture e personale coinvolto, ma anche, per la prima volta a livello nazionale, la Valutazione dell’impatto atteso dalle innovazioni introdotte in termini di maggiore sostenibilità economica, etica e ambientale, che costituisce un criterio preferenziale nella valutazione finale.

Nel tentativo di “mettere a terra”, ovvero di rendere concrete ed operative, decisioni e risultati di analisi e contesti decisionali, si è sempre più diffusa la tendenza tra ricercatori, tecnici, amministratori e legislatori di vari settori produttivi, di far riferimento alla valutazione degli impatti delle attività antropiche come l’attività zootecnica nell’ambiente dove sono svolte.

Per applicare le valutazioni degli impatti si fa spesso riferimento ad elementi relativi alla qualità e quantità dei servizi, alle ricadute verificabili nel breve periodo, ma anche agli effetti di medio-lungo periodo, utilizzando indicatori di vario tipo sintetizzati in indici aggregati come quelli proposti dal progetto Horizon 2020Strenght to Food”, che ha l’obiettivo di valutare gli impatti ambientali, economici e sociali, ovvero la sostenibilità, di 26 prodotti DOP provenienti da 13 paesi UE ed extra UE, utilizzando 13 parametri di sostenibilità.

Un recente articolo pubblicato su ItaliaOggi il 4 novembre 2020, dal titolo L’insostenibile Parmigiano DOP – Un nuovo indice boccia la prima eccellenza italiana, riporta da un lato l’ammirevole tentativo di sintetizzare e quantificare il concetto di sostenibilità, mentre dall’altro presenta e commenta una serie di risultati in modo alquanto discutibile e fuorviante.

Facciamo alcuni esempi:

  • L’articolo, nel denigrare la sostenibilità di una nostra eccellenza, si contraddice quando riporta che l’autore dell’analisi afferma: “Per il solo fatto che il Parmigiano Reggiano esiste da secoli, è sostenibile per definizione. Altrimenti non sarebbe giunto ai nostri giorni. Ma se gli obiettivi sono la resilienza e la sostenibilità economica, sociale ed ambientale, occorre sapere quale è la situazione attuale”. Implicitamente, e correttamente, l’autore specifica che l’analisi è di breve periodo, che non risulta di fatto completa e che considera solo 3 aspetti attuali della sostenibilità trascurando quelli di lungo periodo, ovvero quelli legati alla cultura e tradizioni locali, ai valori storici ed al concetto di biodiversità agroalimentare, che potremmo sintetizzare in una sorta di co-evoluzione centenaria tra uomo e prodotti animali, che fa del Parmigiano Reggiano uno fattore evolutivo essenziale nel territorio nel quale viene prodotto da secoli.
  • Se si vuole approfondire l’articolo divulgativo di ItaliaOggi andando a leggere con attenzione l’articolo scientifico da cui deriva (pubblicato sulla rivista Sustainability 2019, 11(18), 4978; doi.org/10.3390/su11184978) dal titolo “Sustainability, Innovation and Rural Development: The Case of Parmigiano-Reggiano PDO”, si possono capire meglio la metodologia utilizzata e le assunzioni fatte, come spesso avviene in contributi scientifici che non forniscono mai soluzioni definitive ma contribuiscono a fornire piccoli step utili e limitati, ma che devono essere ben interpretati e non distorti. Ci si riferisce per esempio al fatto che questo nuovo indice (Global Synthetic Index) assume la stessa ponderazione per i sotto-indici che lo costituiscono, a seguito di un focus group con i rappresentanti degli stakeholders sui valori osservati. E’ evidente che questa è una procedura empirica e non suffragata da uno studio scientifico sui valori economici di ciascun indicatore aggregato o da altra metodologia riconosciuta nella definizione dei pesi da attribuire a Indici aggregati di sintesi. Pertanto, è facile intuire come il periodo temporale, il contesto economico e le figure coinvolte nella definizione dei pesi dei vari indicatori aggregati possano cambiare. Ad esempio, gli indicatori sociali (% di occupati in agricoltura) hanno oggi un peso diverso rispetto al passato (molti meno occupati oggi) se li confrontiamo con l’Italia di un secolo fa (molti più occupati 100 anni fa). Al contrario, gli indicatori economici (es. produttività di latte per bovina) hanno oggi un peso diverso rispetto al passato (molto più produttive le bovine di oggi) se le confrontiamo con l’Italia di un secolo fa (molto meno produttive le bovine di 100 anni fa). Ovviamente, queste differenze aumentano se confrontiamo prodotti diversi e zone geografiche differenti, e soprattutto se confrontiamo nuovi prodotti con prodotti che hanno una storia e tradizione secolare. Quindi, assumere pesi uguali per tutte le condizioni è una assunzione semplicistica che probabilmente condiziona i risultati.
  • Altro aspetto rilevante nello studio, che non viene chiaramente specificato e che condiziona di molto il risultato apparentemente negativo della sostenibilità del Parmigiano Reggiano, è la dichiarata insostenibilità della Carbon footprint o impronta del carbonio per kg di formaggio. Se i cosiddetti “confini del sistema” sono stati quelli di escludere i positivi effetti di sequestro del carbonio da parte delle superficie foraggere (in proprietà e in affitto) utilizzate dagli allevamenti da latte destinato al Parmigiano Reggiano, è chiaro che l’LCA (life cycle assessment), ovvero l’analisi del ciclo di vita dei 18 chili di latte citati dall’articolo come necessari per produrre il 1 kg di Parmigiano Reggiano, misura una scarsa sostenibilità del prodotto non per demerito dello stesso quanto per un’incompletezza nell’analisi dell’intero ciclo produttivo del prodotto, che dovrebbe considerare anche la fase agronomica e non solo quella zootecnica e quella della trasformazione. Da recenti studi svolti a livello italiano (Ruminantia, Aprile 2020, Il bilancio della produzione di gas serra degli allevamenti è proprio così negativo? ) e comunitario (Future of EU livestock – How to contribute to a sustainable agricultural sector?), risulta che i prodotti di origine animale, meglio ancora se ottenuti da ruminanti come sono i bovini da latte, non solo si possono considerare a bilancio neutro di carbonio, ma in termini di impatto ambientale, grazie all’utilizzo di prati-pascoli e foraggere varie (meglio se da sistemi di produzione pluriennali-permanenti e non annuali), risultano in credito di carbonio e quindi ampiamente sostenibili ed in grado di mitigare le emissioni, oltre che di sé stessi, anche di altri sistemi più impattanti, come il sistema dei trasporti convenzionali e dell’industria in generale.
  • Inoltre, nell’articolo si cita come l’esito negativo ottenuto in termini di sostenibilità dal Parmigiano Reggiano sia dovuto al “peso dell’export in tutto il mondo, che comporta grande consumo di carburante”. Ma siamo sicuri che la responsabilità di ciò, ovvero dell’impatto ambientale dell’esportazione di un prodotto, vada attribuita al prodotto stesso e non ai mezzi ed alle fonti energetiche che vengono usate per il suo trasporto? E’ intuibile come la causa dell’impatto ambientale negativo non debba di certo essere attribuita al Parmigiano Reggiano ma alle modalità e strumenti usati per l’esportazione, che al limite dovrebbero impiegare fonti rinnovabili e modalità di trasporto più sostenibili. E’ paradossale che da un aspetto positivo, come quello dell’interesse del mondo ad acquistare un nostro prodotto di eccellenza, si possa invece veicolare un messaggio negativo e, peggio ancora, attribuirlo al prodotto stesso.
  • Perché nell’articolo non si tratta dei miglioramenti conseguiti? Ovvero delle innovazioni tecnologiche e di processo che hanno avuto un impatto sociale positivo sulla catena del valore, soprattutto a livello di azienda agricola (Farm level), il cui indice è passato da 2,7 a 4,4 tra il 2000 e il 2018. La politica del Consorzio del Parmigiano Reggiano DOP in questi anni ha infatti mirato a sostenere il reddito degli agricoltori, a tutelare la loro attività e ad aggiungere valore alle materie prime. Inoltre, nel considerare i risultati di breve periodo, ovvero il confronto tra le annate 2000 e il 2018, perché non si conclude, come riporta l’autore nel lavoro pubblicato nel consesso scientifico della rivista Sustainability, che: “…risulta migliorata la sostenibilità economica e ambientale complessiva, mantenendo la medesima sostenibilità sociale”, come riportato nella tabella 3 dell’articolo scientifico di seguito evidenziata, sia a livello aziendale (Farm) che a livello di trasformazione (Processing):

  • Infine, per quanto riguarda la classica scala di punteggio utilizzata dall’autore, ovvero 0-10, siamo sicuri che sarebbe completamente raggiungibile, concretamente e fattivamente, qualora venissero applicati tutti i criteri proposti ed assunti indipendenti l’uno dall’altro? Oppure il massimo punteggio non risulta raggiungibile e ci si limita a svolgere un’azione con il solo fine di creare uno scoop giornalistico, riportando nell’articolo divulgativo la frase: “In una scala da zero a dieci, l’indice di sostenibilità globale del Parmigiano Reggiano DOP è 4. Per arrivare a 10 mancano sei punti“. In altri termini, siamo certi che i numerosi criteri adottati ed assunti tutti con la stessa rilevanza nell’indice finale, garantiscano la possibilità di arrivare a 10? Oppure invece alcuni di essi, essendo dipendenti l’uno dall’altro, non consentono il raggiungimento del massimo punteggio teorico previsto? Ad esempio, la produttivaità per capo è correlata negativamente con il consumo assoluto di acqua e l’emissione assoluta di carbonio per capo ma è positivamente correlata con il consumo di acqua e l’emissione di carbonio per unità di prodotto. Pertanto, anche le unità di misura per i parametri e le relazioni tra parametri possono inficiare e rendere impossibile il massimo traguardo teorico previsto. A riprova di ciò, non viene riportato nell’articolo nessun prodotto che si possa definire perfetto dal punto di vista sostenibile e che sia in grado di raggiungere il massimo punteggio; per cui, se un risultato non è raggiungibile concretamente non è da considerarsi un traguardo reale ma un’utopia. Tutto ciò, per dire che servono messaggi e strumenti concreti e raggiungibili ed effettivamente perseguibili, non miraggi e/o traguardi ipotetici.

Pertanto, chi si accinge a scrivere o raccontare qualcosa a tutti dovrebbe rifarsi ad un classico aforisma dell’Antica Grecia, dove il sommo e saggio Socrate, grande filosofo, proponeva un test a coloro che gli andavano a raccontare una notizia, chiamato test dei 3 setacci, che aveva l’obiettivo di verificare la verità, la bontà e l’utilità della notizia da raccontare o scrivere. Se almeno una, o addirittura nessuna di queste tre condizioni veniva confermata, perché allora raccontarla o scriverla? Ci sono altri nobili obiettivi, oltre a questi tre, che motivano il racconto della insostenibilità del Parmigiano Reggiano? Secondo Socrate, filosofo ateniese, vissuto dal 470 o 469 – ivi 399 a. C., si può dire proprio NO!

Questa breve nota ha lo scopo di far riflettere in modo costruttivo, e si spera contagioso, i lettori e consumatori tutti, sul fatto che dobbiamo iniziare a reagire ad attacchi indebiti e poco veritieri, oltre che poco buoni e utili alla nostra società e soprattutto alle nostre eccellenze agroalimentari.

Molto spesso, e recentemente sempre di più, la comunicazione da parte dei media tende a strumentalizzare la scienza e le ricerche utili a conoscere aspetti innovativi e rilevanti per migliorare la nostra società. Società che non ha bisogno di allarmismi o denigrazioni continue delle nostre eccellenze agroalimentari, riconosciute a livello internazionale, imitate proprio per il loro successo, nonché storicamente tramandate da generazioni su generazioni, perfezionandone il processo e la sostenibilità olistica in diverse epoche e circostanze.

Una comunicazione come quella riportata da ItaliaOggi sull’“Insostenibilità del Parmigiano DOP”, non è certo sostenibile ed ha un forte impatto negativo in termini di conoscenza e professionalità, ma soprattutto di correttezza e rispetto verso gli allevatori, oggi sempre meno in termini numerici ma sempre più professionali e responsabili, come quelli che operano nei territori dedicati alle DOP italiane, oltre che a coloro ogni giorno lavorano per garantire prodotti agroalimentari sostenibili, compresi operatori e ricercatori operanti nella intera filiera agroalimentare italiana.