Fino a non molti anni fa si pensava che come era costruita la stalla poco avesse a che vedere con il fare tanto e buon latte e i giusti guadagni. Vacche legate alla catena, semibrade o su cuccette facevano in fondo più o meno le stesse produzioni, che in confronto ai nostri giorni erano decisamente più basse.

Il sogno era arrivare a 30 litri di media.

Era anche il tempo in cui in stalla c’erano meno patologie, o almeno così sembrava,  le vacche duravano di più e il consumatore era più benevolo nei confronti degli allevatori.

Costi sempre più alti, prezzo del latte sempre più basso, o meglio, meno proporzionato alle spese, e l’innamoramento con il modello statunitense delle performance hanno forgiato il modello di produzione del latte bovino che oggi conosciamo. Il mito dell’economia di scala, della diluizione dei costi fissi.

E oggi ci troviamo a raccogliere ciò che si è seminato, ossia ad allevare bovine che senza cocktail ormonali non s’ingravidano, con una dermatite digitale spesso fuori controllo, tante mastiti, e per questi motivi poca longevità funzionale ma, soprattutto, una differenza tra prezzo del latte alla stalla e costi produzione sempre più sottile al punto che neanche i fatidici 40 litri di media possono mettere in “sicurezza economica” molti allevamenti.

Tutto questo con le ovvie e dovute eccezioni.

Ad aggravare il tutto vi è un consumatore sempre più perplesso e polemico verso questo modo di produrre il latte, e il calo dei consumi ne è la testimonianza più tangibile.

Quello che forse è quindi cambiato è il titolo di questa riflessione ossia “E’ la stalla che fa il latte”.

Molti allevatori ispirati dalla saggezza del saper osservare hanno aperto paddock esterni alle vacche in asciutta e alle manze. Quelli che hanno “liberato” le vacche da latte su spazi esterni non cementati le hanno riviste giocare, sgroppare, interagire e manifestare inaspettati calori, oltre a vedere scomparire tante delle zoppie. Non è necessario essere esperti del settore per capire che queste vacche avranno meno problemi e quindi saranno più remunerative.

Quello che manca è solo il trasformare queste esperienze degli allevatori, quasi sempre silenziose, in nuove tecnologie d’allevamento, ossia in una zootecnia da latte 4.0. Le bovine prima erano brade, poi legate, poi nelle cuccette e ora con tanto spazio, interno ed esterno, perché lo spazio sembra essere la “panacea”, ossia la medicina che guarisce tutti i mali dell’allevamento, e al minor costo.

Noi di Ruminantia abbiamo presentato lo scorso anno il progetto della Stalla Etica che prevede, dove si può, la costruzione di stalle compost barn dove le vacche da latte hanno a disposizione m2 20, tra area di riposo e corsia d’alimentazione, e la possibilità di uscire all’esterno.

Queste stalle 4.0 creano le condizione per la sconfitta definitiva della dermatite digitale, di molte mastiti e migliorano nettamente e naturalmente il comportamento estrale e quindi la fertilità.

Le compost barn sono il luogo ideale per lo sviluppo della mungitura automatica, della sensoristica e del culto dei biomarkers.

Quello che sta scoraggiando gli allevatori dall’adottare questo modo di allevare le vacche da latte è il dubbio che il clima italiano possa non consentire a queste lettiere fatte solo di feci d’asciugare, ma la forte diffusione che stanno avendo in Olanda, ed a breve in Danimarca, dovrebbe essere altamente rassicurante.

Infine, queste stalle piacciono ai consumatori, oltre che alle bovine, e questo è sicuramente un buon motivo per  adottare, senza se e senza ma, questa tecnologia.

Noi poi siamo molto pratici e concreti, per cui, se veramente si vuole e si deve razionalizzare l’uso dei farmaci, ridurre la produzione dei gas serra e degli inquinanti delle acque, migliorare, anzi rendere positivo, il bilancio energetico della produzione del latte e rispettare i diritti delle bovine, la compost barn è la scelta migliore.