Ci sono delle parole che definiscono qualcosa che ricorrentemente entrano nel dialogo collettivo e che per molti motivi vengono utilizzate con grande frequenza. La parola crisi, ad esempio, dalla fine del periodo del “miracolo economico” degli anni ’50 e ’60 sembra non avere più abbandonato gli scritti e i dialoghi di noi italiani. Negli ultimi anni la coscienza ecologica della gente, dopo un lungo ma lento covare, è affiorata al punto da condizionare i piani di sviluppo e marketing delle imprese della produzione e del commercio, guidando sempre di più le preferenze d’acquisto. Non posso dire che lo stesso sia avvenuto nei nostri politici. I nuovi mantra di questo tempo della “green economy” sono sostenibilità ambientale e benessere animale, mantra che la gente, quando diventa consumatore, vorrebbe trovare nelle etichette dei prodotti dell’agroalimentare. Quello che prima era solo un desiderio, è ora diventato una delle principali motivazioni d’acquisto. La sostenibilità ambientale della produzione di generi alimentari è un obiettivo complesso (e costoso) da raggiungere, ma una volta conseguito è di facile certificazione ed etichettatura. Con le attuali conoscenze non è infatti difficile quantificare le emissioni di gas serra, ammoniaca, sostanze eutrofizzanti e altri inquinanti. E’ relativamente semplice anche sapere cosa fare per arrivare alla neutralità nei consumi di energia elettrica e per ridurre al minimo l’impiego delle risorse idriche. Questo in tutti i settori produttivi, compreso l’agroalimentare, e nelle produzioni primarie.

Molto diverso è invece il concetto di benessere animale. Questo mantra occupa stabilmente la scena della comunicazione e sta via via dilagando nelle etichette dei prodotti a base di carne, latte e uova. Sono ormai credo la maggioranza, gli allevamenti di animali da cibo che sono stati valutati da esperti abilitati, incaricati dalle industrie, dai Consorzi di Tutela e in qualche caso dalla GDO.

Dai dati dei consumi e delle preferenze d’acquisto sembrerebbe anche che questo continuo parlare di benessere animale e dichiararlo nelle etichette non abbia ottenuto l’effetto sperato. Non ha convinto neanche il giornalismo d’inchiesta e le associazioni animaliste che ultimamente hanno accelerato le loro attività su questo aspetto. Mi sembra anche come veterinario che non ci sia stata una diffusa e sostanziale riduzione dei sintomi clinici del non benessere negli allevamenti, soprattutto se intensivi, anche di nuova ristrutturazione o realizzazione. Il grande impegno profuso fino ad ora nel valutare il benessere negli allevamenti ha comunque avuto il merito di aver individuato gli allevatori negligenti e incivili.

Ma qual è il perché di questa apparente o reale debacle?

Forse si è solo voluto correre troppo e partire da “due”, ossia senza aver fatto le dovute propedeutiche riflessioni culturali e scientifiche. Si è forse semplicemente sbagliato metodo. Non so se avviene ancora oggi, ma ai miei tempi quando l’insegnate affidava a noi studenti un tema d’italiano era importante farlo bene ma anche, e soprattutto, non andare fuori tema. Forse sull’argomento benessere animale è stato fatto un bellissimo elaborato ma andando fuori tema, ossia non si è riusciti a migliorare oggettivamente la qualità della vita degli animali d’allevamento, né tantomeno a rassicurare i consumatori sul loro benessere. Una prova di questa apparentemente dura ma costruttiva affermazione è che in molti allevamenti intensivi di bovine da latte apparentemente perfetti la longevità degli animali è molto bassa, il tasso di rimonta è elevato e senza “aiutini” ormonali, perfettamente legali, le vacche non si riproducono.

E allora cosa si sarebbe dovuto fare?

Secondo la mia opinione sarebbero bastati studi antropologici e etologici, ossia consultare propedeuticamente filosofi, antropologi ed  etologi, esperti della mente umana e di quella animale. Un periodo propedeutico di studio multidisciplinare di pochi mesi avrebbe trasformato radicalmente il modo di definire il benessere animale e di misurarlo, e le modalità della sua comunicazione ai consumatori. Si è invece scelto, come direbbe il proverbio, “di comprare prima la frusta e poi il cavallo”.

La gente, giusto o sbagliato che sia, ha un visione antropomorfizzata degli animali. Vede nei cani e nei gatti con i quali condivide tempo e affetti, comportamenti tipicamente umani. Inoltre, la selezione genetica degli animali d’affezione tende ad assecondare il più possibile questo sentimento, al punto che anche l’aspetto di questi animali tende ad assomigliare sempre di più all’uomo. Questo processo è arrivato al punto di avere creato cani e gatti di razze deformi pur di avere la testa tonda, gli occhi grandi e il muso schiacciato, animali che soffrono per problemi respiratori e non solo.

Con lo stesso metro molta gente e molti media giudicano e valutano gli animali d’allevamento, dimenticando che le attuali razze e specie destinate a produrre cibo per l’uomo non esistono in natura in quanto provengono da un’incessante selezione genetica iniziata 8000 anni fa con la domesticazione. Di converso però la lunga traiettoria di evoluzione delle razze, della nutrizione, della gestione e del modo di concepire gli allevamenti ha seguito prevalentemente la logica dell’economica di scala che ci ha portato ad avere latte e carne commodity che non appartengono né alla cultura né alle modalità di sviluppo economico del nostro paese.

Il sistema di valutazione del benessere animale utilizzato come gold standard in Italia è basato su un metodo di confronto della realtà con le  modalità di allevamento ritenute ideali, con l’aggiunta di osservazioni cliniche degli animali. Il consumatore però, fuorviato anche da campagne pubblicitarie in stile naïf, pensa che un animale d’allevamento stia molto bene se vive e si alimenta di pascoli, e del punteggio conseguito dalla valutazione del benessere si interessa ben poco.

Per dare un futuro all’allevamento intensivo, e garantirgli una doverosa dignità economica, è necessario uscire rapidamente da questo cortocircuito. Ma come farlo?

Innanzitutto l’industria lattiero casearia, i Consorzi di Tutela e la GDO devono siglare un patto aletico, ossia dire “la verità, null’atro che la verità” sugli allevamenti intensivi e porsi nei confronti dei media, e soprattutto del giornalisti d’inchiesta, con un atteggiamento umile e collaborativo, non evocando la limitazione della libertà di stampa e di espressione. Il secondo atto è quello di offrire agli allevatori tre traiettorie di sviluppo in modo che essi possano scegliere liberamente e da imprenditori consapevoli la strada da seguire. Esistono ed esisteranno sempre allevamenti strutturati a produrre, per superficie agricola utilizzata e metro-quadrato stalla, la maggiore quantità possibile di latte o di carne destinati a competere a livello globale per qualità e prezzo. In questi allevamenti l’attuale sistema di valutazione del benessere animale e quelli che verranno per la sua certificazione vanno più che bene, in quanto inseriti in un mero contesto di standard produttivi. Accanto a questi devono esistere allevamenti intensivi dove la priorità è fare un prodotto dove venga tutelato il “diritto delle bovine di condurre una vita il più simile possibile a quella che avrebbero avuto in natura” e dove la sostenibilità ambientale e sociale sia tutelata ben oltre quanto richiesto dalle leggi comunitarie e italiane e per le consuetudini. L’allevamento estensivo, o meglio misto, è invece da riservare, almeno per i ruminanti, dove la terra non dispone di sufficienti risorse idriche per l’irrigazione e in tutte le aree interne o marginali del nostro paese.

Un celebre film del compianto Massimo Troisi s’intitolava “ricomincio da tre” ma a mio avviso sul tema del benessere animale si deve ricominciare da uno, ossia dall’inizio. Il termine “benessere animale” va bene solo per un utilizzo “legislativo” e le checklist sono lo strumento ideale per valutarlo. Di stalle dove gli animali domestici selezionati dall’uomo possano assecondare il loro comportamento naturale, al netto degli svantaggi della vita selvaggia, ce ne sono, per il momento, ancora pochissime e per come si dovranno strutturare non possono produrre il latte commodity da destinare anche alla produzione dei prodotti a denominazione d’origine. Queste stalle saranno invece destinate a prodotti ad elevata capacità narrativa e con sistemi di certificazione della qualità della vita degli animali e della sostenibilità ambientale radicalmente diversi da quelli fin qui immaginati.