Gastronomia casearia

Alcuni vogliono che il termine gastronomia sia stato inventato come un sberleffo coniato sulla parola astronomia, per canzonare chi si dedica ai piaceri dello stomaco (gastronomia) invece di occuparsi di quelli delle alte sfere celesti (astronomia). Più realistica è invece l’opinione che vuole che il vocabolo gastronomia sia stato costruito sui termini greci gastro (ventre, stomaco) e nomos (legge), per indicare regola del mangiare. Su quest’ultima linea Anthèlme Brillat Savarin, nella Fisiologia del gusto, scrive: “la gastronomia è la conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto egli si nutre e il suo fine è vigilare sulla conservazione dell’uomo per mezzo della miglior nutrizione possibile. Essa vi arriva dirigendo, in base a principi certi, tutti coloro che cercano, forniscono o preparano le cose che possono convertirsi in alimenti. Così è proprio essa che fa muovere i coltivatori, i vignaioli, i pescatori e la numerosa famiglia dei cuochi, quale che sia il titolo o la qualifica sotto cui essi mascherano il loro occuparsi della preparazione degli alimenti”. Gastronomia casearia è quindi tutto quanto concerne l’uso alimentare dei formaggi, un campo enorme sul quale si possono dare alcune informazioni e raccontare degli aneddoti.

Antichi formaggi tra cocktail e pranzi

Ai tempi omerici dell’antica Grecia, circa tremila anni fa, era ben noto il formaggio stagionato e da grattugia, e vi sono diverse testimonianze rese da Omero in relazione al formaggio, soprattutto di capra più che di pecora, usato nella preparazione di un cocktail. A Macaone ferito alla spalla destra Nestore consiglia: “Siedi, bevi e gratta del formaggio di capra nel vino e mangia molto cipolla, perché ti stimoli a bere”. In un’altra parte dell’Iliade è detto che “La bionda Ecamede versa a Nestore e a Macaone una bevanda ristoratrice fatta con farine, vino e formaggio”. Che formaggio stagionato e vino siano una gradevole accoppiata è vero ancora oggi, mentre sembra scomparsa l’abitudine di grattugiare il formaggio nel vino, ma chi l’ha provata usando un vino rosso di corpo l’ha trovata molto gradevole. Sempre Omero nell’Odissea, quando narra del caseificio di Polifemo, descrive dettagliatamente la produzione del formaggio ovicaprino, ma non dà descrizione alcuna del suo uso gastronomico.

Nell’antica Roma, facendo un salto di mille anni, Marco Valerio Marziale (40 circa – 104 d. C.) negli epigrammi di Xenia, cita quattro formaggi: Caseus Lunensis (Caseus Etruscae signatus imagine Lunae praestabit pueris prandia mille tuis), Caseus fumosus (Non quemcumque focum nec fumum caseus omnem  sed Velabrensem qui bibit, ille sapit), Caseus Vestinus (Si sine carne voles ientacula sumere frugi, haec tibi Vestino de grege massa venit) e Casei Trebulani (Trebula nos genuit; commendat gratia duplex, sive levi flamma sive domamur aqua). Questi quattro formaggi riassumono le grandi tipologie di formaggi italici: il formaggio probabilmente bovino di grande formato di Luni, capace di offrire mille colazioni agli schiavi, il pecorino abruzzese forte e nutriente, che può sostituire lo spuntino a base di carne, il caprino affumicato a Roma, nella zona del Velabro, e i formaggi di Trebula, migliori se riscaldati sulla brace o con l’acqua calda. L’ordine di presentazione seguito da Marziale ricalca quello già esposto da Varrone (bubuli, ovilli, caprini), e ripreso con qualche variazione da Plinio, ma Marziale aggiunge una quarta categoria, quella dei casei Trebulani, simili forse a quelli di Caedia citati da Plinio prima dei caprini affumicati e che potrebbero essere formaggi a pasta filata. Nella generale presentazione nel libro degli Xenia, i formaggi (casei) sono messi tra gli antipasti (gustatio), collocati dopo i legumina e gli holera e prima delle portate importanti, tra una serie di cibi che comprendono il vino dolce, mulsum, e la frutta secca, ma possono valere come prandia destinati agli schiavi (Caseus lunensis) o usati al posto della carne (Caseus vestinus) e anche cotti (Casei trebulani).

Cacio e pepe antica ricetta

Dopo altri mille anni, in pieno Medioevo, qual’è il condimento della pasta, iniziando dagli spaghetti? Il pomodoro, diranno alcuni, o il sugo di carne, altri. Ma nessuno di questi due condimenti è stato usato all’origine di questo piatto perchè entrambi sono arrivati molto più tardi. Solo alla fine del 1700 sulla pasta arriva il pomodoro, come sostituzione povera del sugo di carne che forse era il condimento della pasta dei ricchi, ma non sono i condimenti di quando questo cibo giunse nel Mediterraneo.

La pasta è il pregiato cibo riservato ai capitani delle navi corsare arabe che solcano i mari, terrorizzando le popolazioni delle coste mediterranee. La ciurma delle veloci feluche si nutre con zuppe di gallette e legumi. Il capitano e i suoi aiutanti di più alto grado hanno il privilegio di pasteggiare con pasta di grano duro, non sgranata come nel cuscus, ma ridotta in fili ed essiccata, denominata tria o tris, bollita in acqua di mare e condita con formaggio piccante di capra o pecora, grattugiato all’istante, come ancor oggi si conviene. Pasta secca e formaggio stagionato sono alimenti che sopportano bene le lunghe navigazioni e che sono imbarcati nei porti di partenza degli arabi, i primi inventori di questo cibo. Non sono infatti i cinesi ad aver creato per primi gli spaghetti, anche se non si può negare che in modo del tutto indipendente abbiano preparato lunghi fili con la farina di riso, ma tutt’altra cosa! Per soddisfare il gusto del piccante, che invoglia e agevola le bevute di vino, il capitano non di rado si concede il lusso di aggiungere un poco del prezioso pepe, che fa parte della mercanzia trasportata dal veloce veliero.

Spaghetti cacio e pepe è quindi la prima ricetta della pasta, una ricetta che ancora resiste, ben ancorata in particolare a Roma. Permanenza che non è scalfita dal sopravvenire di tanti altri condimenti, una serie quasi infinita che si accresce di giorno in giorno, se non di ora in ora. La pasta è un cibo che accetta ogni proposta di condimento, animale o vegetale, di terra, mare ed anche cielo, senza tuttavia dimenticare che prima di tutti viene il cacio, come dice il significativo proverbio “Ci sta come il cacio sui maccheroni!”.

Formaggi cibi per ricchi e poveri

“Al villan non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere” è un proverbio tanto noto da far dimenticare la verità di una saggezza popolare che stiamo abbandonando. Formaggio con le pere, perché?

A parte il fatto abbastanza banale e ovvio che sapere fa rima con pere, e quindi formaggio e fave, e tanto meno mele o fichi, non ci stanno, formaggio e frutta un tempo erano anche simboli alimentari di due mondi diversi e distanti. E tali dovevano rimanere.

Nel passato i formaggi non avevano sempre le qualità di oggi e Marziale, in un suo epigramma, li destina all’alimentazione degli schiavi. Di questo non ci si deve stupire, viste le condizioni di produzione e di conservazione. I formaggi sono anche uno degli alimenti dei pellegrini, perché di facile conservazione e trasporto; da mangiare con un poco di pane, il formaggio è anche cibo permesso nei giorni di magro. Nei tempi andati la frutta è tra i cibi più apprezzati e ambiti, e in ogni residenza signorile, come nei più ricchi monasteri e conventi, accanto all’orto vi è il frutteto e, tra tutte le frutta, la pera è la più apprezzata. Formaggio anche dei poveri, ma pera solo dei ricchi quindi, e ognuno deve stare al suo posto, anche a tavola. Quindi il villano, o contadino, che può mangiare il formaggio, non deve accedere alla pera.

Associare il formaggio alla frutta ha anche altri significati e non è un caso che quando due secoli fa, nel milleottocento, si costruisce la cucina borghese con i suoi canoni. Il formaggio, questa volta di qualità, è associato alla frutta alla fine del pranzo, quando bisogna stimolare l’appetito con nuovi sapori e accostamenti. Il salato del formaggio contrasta con il dolce della frutta, spesso anche associando il duro del primo con il tenero della seconda, in un’armonia raggiunta attraverso gli opposti. Questo non basta, perché non si deve dimenticare che latticini e frutta hanno antichissime radici depositate nel nostro inconscio alimentare di mammiferi frugivori. Come mammiferi, nel latte troviamo rassicuranti radici neonatali e infantili. Come frugivori, nella frutta, della quale abbiamo quasi bisogno per talune vitamine come la C, troviamo ricordi inconsci delle specie che ci hanno preceduto e dalle quali discendiamo. Un’accoppiata rassicurante, ma un tempo non disponibile per tutti. I ceti abbienti, laici e religiosi, quindi se ne sono appropriati, emarginando gli altri, iniziando dai villani. Quest’accoppiata non è la sola, e sulla stessa linea gustativa vi è l’associazione dei formaggi con il miele o le marmellate.

Formaggio da ingrediente e dessert a pietanza

Arrivati all’oggi, i formaggi continuano ad essere un ingrediente d’innumerevoli piatti, ma cessa il ruolo che avevano nella gastronomia borghese quando entravano in scena nel dessert al termine del pranzo e specialmente della cena, unitamente alla frutta e al dolce, tanto che e Anthèlme Brillat Savarin aveva sentenziato che un dessert senza formaggio è come una bella fanciulla senza un occhio. Ora il dessert, quando non è un deserto, si riduce al solo dolce.

In questa nuova struttura dei luoghi e tempo del mangiare, i formaggi acquistano una loro autonomia di pietanza e di piatto forte, soprattutto quando in tavola ne sono presentati più di uno. Diversi tipi di formaggi sono differentemente accoppiati con vegetali (verdure e frutta) e bevande (vini, birre o succhi di frutta), divenendo anche un sostituto alla carne, con gradimento anche dei vegetariani.

 

 

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, é stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastrononie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastrononie.