La bovina da latte fu classificata ormai tanti anni fa da Bill Chalupa come “atleta metabolico” al fine di equiparare la sua capacità di produrre grandi quantità di latte con le prestazioni sportive umane estreme, come ad esempio la maratona. Durante queste attività il consumo e il metabolismo dell’ossigeno sono elevati e sono quindi prodotte molte molecole ossigeno reattive (ROS), perlopiù conosciute come radicali liberi, come l’anione superossido (O2), il perossido d’idrogeno (H2O2) e il radicale idrossilico (.OH). Queste molecole altamente reattive vengono prodotte in grandi quantità anche dai globuli bianchi (leucociti), come i neutrofili e i macrofagi, durante il processo di fagocitosi perché le utilizzano come arma per neutralizzare batteri e virus. Nel caso delle mastiti, spesso i ROS si diffondono dai leucociti impegnati nella neutralizzazione di un patogeno (e non solo) e impattano negativamente sulle cellule sane che rivestono l’alveolo mammario in una reazione a catena che si auto innesca. Le cellule danneggiate infatti richiamano, o meglio reclutano, altri neutrofili e macrofagi dal sangue e la reazione a catena prosegue. Se la dotazione di molecole ad azione antiossidante è inferiore ai ROS prodotti, si verifica una condizione definita “stress ossidativo” a testimoniare la rottura di un equilibrio o di una omeostasi. Gli antiossidanti agiscono proteggendo le cellule direttamente, donando elettroni (vitamine), o indirettamente, nei sistemi enzimatici (oligoelementi). Intervengono a vario titolo nel sistema antiossidante: la vitamina E, il β-carotene, il rame, lo zinco, il manganese e il selenio. Gli oligoelementi appena elencati sono parte essenziale di enzimi come la glutatione perossidasi (GSHpx), che dipende dalla disponibilità di selenio, e la superossido-dismutasi (SOD) che dipende dal manganese, dal rame e dallo zinco.

Si può sospettare in allevamento uno stress ossidativo, ossia una carenza primaria o secondaria di molecole antiossidanti, quando la prevalenza della ritenzione di placenta è troppo alta, quando mastiti anche lievi tendono a cronicizzare o quando la fertilità e il sistema immunitario non sembrano così efficienti. Patologia tipica della carenza grave di selenio è la distrofia muscolare che nelle aree a carenza endemica si manifesta in alta prevalenza nei vitelli e negli agnelli appena nati.

Il selenio è tra i 4 oligoelementi citati quello per il quale si rischia maggiormente una carenza non solo nella bovina da latte ma anche negli altri ruminanti domestici, anche se i fabbisogno sono chiari e universalmente condivisi.

Il selenio è naturalmente presente nei foraggi e nei concentrati somministrati agli animali d’allevamento ma in quantità molto variabile e in buona parte dipendente dall’essenza botanica, dal tipo di terreno e dalla concentrazione di selenio nel suolo. Quest’ultima è considerata molto bassa quando è inferiore a 0.3 mg/kg di terreno secco (ppm), bassa quando è < 0.5 ppm, alta se > 0.9 ppm e molto elevata se >1.5 ppm. I suoli ben areati e alcalini stimolano l’assorbimento di selenio da parte delle piante mentre suoli acidi raramente producono foraggi con livelli di tossici di selenio. Il suo assorbimento intestinale può essere condizionato negativamente da un alto livello di zolfo, ferro, arsenico e calcio nella dieta. Quando viene apportato come integrazione, generalmente si utilizzano fonti inorganiche, come il selenito di sodio e il selenato di sodio, ma anche fonti organiche generalmente più biodisponibili, come i lieviti arricchiti di selenio e anche la selenometionina. Le fonti organiche sfruttano il carrier offerto dagli aminoacidi per i loro assorbimento.

La digeribilità apparente del selenio contenuto nei foraggi e nei concentrati somministrati agli animali varia dal 36 al 74% mentre quella del selenio presente nel selenito di sodio varia dal 30 al 50%.

Molto del selenio della dieta viene utilizzato dalla biomassa ruminale. Sia quello che “by-passa” il rumine che quello presente nella biomassa microbica vengono assorbiti a livello dell’intestino tenue.

Buona parte del selenio viene trasportata ai tessuti dalla selenoproteina P, la cui quantificazione ematica è utilizzata nell’uomo per verificare se la quantità di selenio apportata con le dieta è corretta. Si stima che l’apporto giornaliero ideale per un uomo adulto sia di 70 μg/die. Il selenio si accumula nell’organismo come selenometionina principalmente nei reni, nel fegato, nel pancreas e nei muscoli.

Il selenio è naturalmente presente negli animali sotto forma di due aminoacidi “selenizzati”: la selenometionina, definita anche come la forma di stoccaggio corporeo del selenio, e la selenocisteina, definita come la forma attiva di selenio essendo associata al sito catalitico di ogni selenoproteina. Tra le tante funzioni biologiche in cui questo oligoelemento è coinvolto troviamo la sintesi della glutatione perossidasi (GSHpx) di cui è il principale fattore limitante. Questo enzima, presente nel citoplasma di quasi tutti i tessuti dei mammiferi, li protegge dai danni che potrebbero essere causati dai ROS ed in particolare dal perossido d’idrogeno. Nell’uomo sono stati individuati polimorfismi genetici della glutatione perossidasi e una loro alterata espressione è associata a danni ossidativi del DNA, con una conseguente predisposizione degli individui “portatori” al cancro.

Le carenze primarie e secondarie di selenio sono in aumento in quanto il terreno tende nel tempo a depauperarsi di questo oligoelemento e i fabbisogni delle bovine da latte sono probabilmente in incremento; anche se i nutrizionisti, sia accademici che professionisti, condividono che la concentrazione ideale di una dieta per bovine da latte sia di 0.3 milligrammi per kg (ppm) di sostanza secca dalla vitella alla bovina adulta. Per il selenio organico”, ossia quello apportabile tramite culture di lievito inattivate o con la selenometionina idrossianaloga, l’EFSA ritiene sufficiente un‘integrazione di 0.2 ppm.

Essendo il selenio un oligoelemento dotato di elevata tossicità e di facile carenza è bene essere meticolosi nelle verifiche in allevamento. E’ consigliabile determinare periodicamente la concentrazione di selenio dei foraggi prodotti in azienda in modo da capire come avviene il trasferimento di questo oligoelemento dal suolo alle piante. Grazie all’XRF questa analisi è oggi possibile a costi contenuti. La verifica dello “status del selenio”, ossia la misurazione della sua concentrazione nel latte e nel sangue, può fornire numerose informazioni in modo da evitare pericolose carenze ed eccessi.

Sono sicuramente da evitare diete che superino lo 0.3% consigliato, considerando che si ritiene tossica una dieta che contiene oltre 2 ppm di selenio.

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